martedì 27 dicembre 2011

Il presepe napoletano

“Presepe” indica la mangiatoia, la stalla, perciò la scena della Natività così come indicata nei testi religiosi cristiani, nei vangeli: nel Vangelo di Luca si parla solo della mangiatoia, nei vangeli apocrifi appaiono invece, tutti gli altri elementi, la grotta, il bue e l’asino, i pastori adoranti, la cometa.

La tradizione cristiana fa risalire il primo presepe a Francesco d’Assisi, che nel dicembre del 1223, ottenuta l’autorizzazione dal papa Onorio III, fece rivivere, in una grotta di Greccio, oggi in provincia di Rieti, Lazio, la scena della natività. Nella grotta egli fece sistemare una mangiatoia, arrivarono contadini e pastori con cavalli, asini e altre bestie, e lì fu celebrata la messa.

La scena è ricordata in un dipinto di Giotto, un affresco della cappella superiore di S. Francesco ad Assisi, e viene ricordata come il primo presepe..

Secondo alcuni studiosi, il primo presepe invece, consistente in una semplice rappresentazione della natività, fu fatto a Roma, nell’827 da papa Gregorio IV. Questo tipo di rappresentazione sacra, detta anche “mistero”, era molto diffusa nelle campagne e nelle città, già nell’alto medio Evo.

A Napoli, il primo presepe, secondo alcuni, fu allestito nel 1025, in una antica diaconìa – così veniva definito nelle prime comunità cristiane un ufficio ecclesiastico subordinato al vescovo -, con una semplice tettoia sorretta da due antiche colonne romane.

E’ in questa città che il presepe assumerà un suo particolare sviluppo.

Innanzi tutto, a Napoli, c’è, unica al mondo, una intera strada dedicata al presepe: è via S.Gregorio Armeno, nel centro storico, l’antico “cardo maior” dell’epoca romana, che unisce la via Tribunali, il decumano maior, con la più famosa via di Spaccanapoli, il decumano inferior.

Chi volesse approfondire questo aspetto storico, può leggere, su questo stesso blog,”Itinerari”

Qui basterà ricordare che, già più di duemila anni fa, alcuni parlano già del IV o III secolo a.c., su quella stessa strada, artigiani Greci e Romani fabbricavano statuette di creta da offrire alla dea Demetra (o Cerere ), il cui tempio si trovava proprio dove poi fu fondato, e ancora oggi esiste, la chiesa e il convento di S.Gregorio Armeno.

Personalmente credo che si tratti più di una leggenda, ma è storicamente provato che lì esisteva il tempio di Cerere, per cui non si può neanche escludere che nelle vicinanze ci fossero botteghe dedite alla fabbricazione e alla vendita di statuette votive, anche per gli altri Dei dell’epoca, i cui templi erano sempre nella zona..

Per secoli, il presepe fu essenzialmente una semplice rappresentazione liturgica anche a Napoli; secondo gli storici, bisogna arrivare al 1534 per un importante mutamento, avvenuto ad opera di S.Gaetano di Thiene, che operava nella chiesa di S. Paolo maggiore, situata nella piazza che oggi prende il suo nome, all’inizio e di fronte alla via S.Gregorio Armeno. Quale era questa novità? La natività fu attualizzata, resa più reale, i personaggi che animavano il presepe furono vestiti non come al tempo di Cristo, ma con abiti del ‘500. Fu, si racconta, un grande successo popolare.

Si proseguì perciò su questa strada, allestendo presepi sempre più complessi e con statuine di varia grandezza e fatte di vario materiale, con abiti su misura, capelli veri, visi più espressivi, fino ad arrivare poi, nel XVIII sec. alla composizione che conosciamo ancora oggi.

Lì, lungo tutta la strada di S.Gregorio, continua a fiorire ancora l’ antica attività artigiana, che forma, costruisce, dipinge e veste le statuine in terracotta, chiamati genericamente i ”pastori”. Tanti ricordi di quando ero ragazzino, si andava a vedere e comprare i pastori, ad acquistare il “sughero” per fabbricare il presepe in casa.

La particolarità del presepe di Napoli fu ed è questa, cioè quella di perdere molti elementi religiosi, e di assumere, invece, un carattere più allegro e vivace, di festa, più realistico e autentico.

Lì viene rappresentato tutto un mondo, contiene non soltanto Madonna, Giuseppe, Bambino, bue, asinello e altri personaggi della tradizione cristiana, ma una serie di caratteristiche figure del folklore napoletano, mescolate con figure orientali, spesso con una confusione di epoche e di costumi. Ad esempio si abbigliarono i re Magi come re spagnoli, con mantelline, gorgierine increspate, mentre i pastori indossarono costumi del Molise e della Calabria.

Sono i personaggi che rappresentano il mondo reale con tutte le sue categorie sociali, soprattutto dell’epoca d’oro del presepe, il ‘700, con tutti i suoi mestieri e professioni.

Così il vinaio Cicci Bacco sulla botte, il pastorello Benino, ritratto dormiente, il pescatore e il barbiere Sarchiapone, il mercante, e altri, e oggi, come accennavo, qualche artigiano si avventura nella rappresentazione di personaggi attuali, politici, calciatori famosi e personaggi presi dalla cronaca.

Come dice Francesco Durante, nel suo “i Napoletani “: “che cos’è il presepe, se non la miniatura del mondo intero?”.

Lo studioso Franco Mancini diceva che nel presepe napoletano: “l’arrotino, la zingara, il bottegaio, lo storpio, il pezzente, danno vita a una singolare corte dei miracoli, cui è contrapposta l’opulenza del mondo orientale, con il fasto e la ricchezza del seguito dei Re Magi”.

Una vera e propria arte che si sviluppò con Carlo di Borbone: il re aveva una vera passione per il presepe ed era condivisa anche dalla regina che sembra provvedesse direttamente all’allestimento e alla scelta delle vesti da mettere ai pastori.

Scultori famosi, come Giuseppe Sanmartino e Lorenzo Vaccaro, quest’ultimo anche pittore, si dedicarono alla realizzazione di teste, mani e piedi per le statuine da presepe, ed anche abili artigiani contribuirono alla formazione questo genere artistico e di quella struttura caratteristica del presepe napoletano. La grotta della natività generalmente posta in basso, con angeli e pastori,in alto la montagna con pastori , le greggi e qualche angelo volteggiante, e la stella cometa, di lato la taverna e gli avventori e gli altri personaggi tipici.

Le fotografie che pubblico sono scattate sul presepe esposto nella Certosa di S.Martino, in via S. Gregorio Armeno e nella omonima chiesa.

Sul presepe, Eduardo de Filippo, ci ha costruito una delle sue commedie più famose “Natale in casa Cupiello”, dove combatte una inutile battaglia per convincere il figlio che il presepe è bello:”Te piace ‘o presepio?”, e gli illustra la preparazione:” ccà, po’ ce faccio l’osteria….’a funtanella ca votta ll’acqua veramente…..”. Ma è inutile perché : “ Nun me piace, ‘o presepio..”.Ed è sempre al “Presebbio”, sono rivolte le ultime parole del protagonista: “ che bel presepe! Quanto è bello!”.

Oggi, la tradizione del vero presepe si sta perdendo, sostituita dal più veloce, moderno e consumistico albero di Natale.

giovedì 15 dicembre 2011

Carditello




Tempo fa avevo tracciato, o, almeno, avevo provato, una breve descrizione della Reggia di Carditello, antica residenza estiva dei Borbone di Napoli, dalla sue origini ad oggi: chi vuole può andare a cercare sul sito “arte ricerca.com ”, Testi d’arte e pubblicazioni, oppure sul blog “Storie e storie”,www giovanniattina.blogspot.com.
Avevo provato a descriverne la storia e la bellezza antica, i saccheggi subiti e il degrado di oggi, con le discariche abusive che la circondano, i siti di stoccaggio di immondizie raccolte in balle di plastica.
Per non dire dell’interno, dove non mi è stato possibile entrare, ma che, da quel che si sa, è stato depredato tutto quello che era possibile , camini, fregi, marmi delle scalinate, acquasantiere, sono stati sfregati i dipinti e gli affreschi, fin dall ‘arrivo dei Fratelli d’Italia, 150 anni fa.
Se ne è occupato da ultimo anche la trasmissione “Report”, di Rai tre, Domenica 4 dicembre, mostrando lo scempio interno ed esterno del sito, e lo scaricabarile dei vari Enti che avrebbero dovuto e dovrebbero effettuare gli interventi di manutenzione, mentre due giorni prima se ne era parlato anche sui radio RAI 3.
La situazione di degrado di Carditello non è diversa da quelle di tanti altri nostri siti artistici archeologici e storici.
Questo paese, e questi governi, che, per trovare soldi, non sanno fare altro – come al solito - che aumentare la benzina e le sigarette, tassare lavoratori dipendenti e pensionati, e si vendono i gioielli di famiglia agli affaristi, sembra di vedere Totò che si vendeva la fontana di Trevi.
Questi non hanno ancora capito che l ‘unica industria che abbiamo e che può rendere economicamente, è costituita da quei beni culturali, artistici, archeologici e storici di cui siamo veramente pieni, altro che FIAT, Marchionne e compagnia.
Basterebbe ovviamente tenerli bene e non mandarli in rovina; consiglio a tal proposito di leggere “Vandali” di Gianantonio Stella e Sergio Rizzo, che dicono, a proposito della Campania, “ex felix”: “ Macerie archeologiche, macerie finanziarie, macerie turistiche…….Nonostante l’antica Capua, nonostante Velia e Paestum, nonostante Ercolano, Oplontis, Pompei e una miriade di altri siti.”.
Carditello, peraltro, suscita appetiti minacciosi e criminali, bisogna, infatti, ricordarsi anche che a poca distanza c’è una “ridente” cittadina che si chiama Casal di Principe, che non ha nulla a che fare con nessun principe, ma è nota alle cronache – e alla Polizia - per ben altro.
Per venire alla storia di oggi, devo dire che poco tempo fa, un cortese lettore, leggendo l’intervento su “arte ricerca.com”, aveva segnalato la ventilata vendita per 50 milioni di Euro.
La Reggia fu data in proprietà, negli anni ’20 del XX secolo, al Consorzio di bonifiche del bacino inferiore del Volturno, che l’ha mandato in rovina. Non ho mai capito per quale motivo un bene storico culturale fu dato in “proprietà” a quell’Ente, che sarà anche bravo e onesto nelle effettuare bonifiche del fiume, ma che “ c’azzecava e c’azzecca” con un sito di carattere culturale, lo si capisce dal modo in cui è stato conservato e utilizzato.
Ora sembra che il Consorzio è pieno di debiti, Regione, Provincia e Comune , malgrado le belle parole, non hanno fatto niente. Si dice che cii fosse un interesse della Regione per farne un centro di attrazione storico-culturale e anche turistico, ma evidentemente non è cosi.
E, siccome alle banche, nel caso particolare, prima il Banco di Napoli e ora Banca Intesa non interessa niente della cultura, per pagare i debiti del consorzio il bene è stato messo all’asta dal Tribunale per 25 milioni di Euro. La gara, il 20 novembre di quest’anno c’è stata la seconda asta, è andata deserta, ed è stata già fissata la terza per marzo 2012, a un prezzo ribassato di 15 milioni di Euro. Si teme che il prezzo calerà ancora, fino a che non sarà veramente svenduta, a chi ? E questo Tribunale, che fretta ha?
Fu costituito anche un comitato” Salviamo Carditello”, di cui fanno parte Enti, come Italia nostra, e normali cittadini, che ha rivolto appelli anche al Presidente della Repubblica, ma al momento la situazione è sempre la stessa
Intanto, i vandali, si danno da fare.
Da “le cronache di Caserta” del 18 settembre 2011, un resoconto di M.P.Oliva:” Le fiamme hanno avvolto l’area verde della Reggia di Carditello. Ennesimoatto vandalico nei pressi del sito reale quello che si è consumato ieri pomeriggio e che ha mandato nello sconforto cittadini, politici e tutti coloro che si battono quotidianamente per la salvaguardia del bene.. L’incendio, di grosse dimensioni, si è esteso all’interno della reggia borbonica verso le 17…..”. Il resoconto continua descrivendo l’intervento dei vigili del fuoco e del sindaco della cittadina di S.Tammaro, ma mi pare più interessante riportare il commento di Maia Carmela Caiola, presidente provinciale di Italia nostra:” Sono sconcertata, quanto accaduto è inquietante: Non vorremmo ci fosse un collegamento con la vendita all’asta del bene. Ci preoccupa un eventuale zampino della malavita……”.
Da la Repubblica.it del 20,marzo 2011.” Nonostante il territorio sia vandalizzato, Carditello resiste…….l’edificio centrale è stato restaurato nel 2000, ma senza manutenzione quei lavori resistono a stento. E ogni giorno c’è un pezzo in meno. Nelle stalle venne sistemato, alla fine degli anni settanta del ‘900, un museo della civiltà contadina, i cui oggetti ora giacciono abbandonati, mentre tanti altri sono stati rubati o trasferiti altrove. Ora non c’è più niente. Le scale sono divelte, i tetti crollano, se piove entra acqua e le travi penzolano minacciose. Il cancello è chiuso, per entrare c’è bisogno di un permesso del Giudice. Si sono mossi Comitati di cittadini, moltissimi i giovani.”.
Le ultime notizie su Carditello si riferiscono alla presenza di Vittorio Sgarbi a Caserta e al parere favorevole espresso per la gestione della Reggia affidata a privati:"Meglio un privato che conserva, preserva e mette a disposizione della collettività, che uno Stato che abbrutisce, nega, chiude al pubblico".(da "il Mattino" del 1/2/12).
Nel frattempo la Reggia continua a perdere pezzi:" Il tetto dell'ala all'estremo margine sinistro è franato nella notte per le piogge"(da Il Mattino del 12/2/12).
Continuano anche i furti, viene rubato di tutto perfino i fili elettrici.
Qualsiasi altra considerazione è inutile, sono indignato per quanto sta accadendo ed esprimo la mia personale solidarietà a quelli che stanno provando a salvare Carditello, oltre alla mia disponibilità per ogni possibile iniziativa.
Dalla cronaca di Napoli de " la Repubblica " del 28 giugno 2013: Reggia di Carditello, deserta la decima asta.


martedì 13 dicembre 2011

Storia di una evasione

Questa è la storia di un ventenne straniero, arrestato in gennaio di quest’anno – 2005 – per immigrazione clandestina, passeur di due clandestini.

Appena arrivato, tutti si sono chiesti chi poteva averlo arrestato visto che non era proprio a posto con la testa. Si scoprì che non era la prima volta che veniva arrestato, così la condanna non fu proprio mite: due anni e dieci mesi.

Questo giovane, oltre a essere rimasto a pagina dodici con la testa (?), aveva anche il brutto vizio di tenere sempre le dita nel naso, era sempre “ onto e bisonto”, parlava a vanvera, rideva da solo; insomma, secondo tanti non doveva stare in carcere, ma in tutt’altro istituto.

Lo hanno aiutato tanto i compagni di cella e non. Ha lavorato un paio di volte come scopino( il

lavoro è rotativo, si cambia ogni 15 giorni.(1)

Credo che nessuno mai e poi mai avrebbe pensato che Danilo potesse evadere e anche se lo avesse confidato a qualcuno, chi avrebbe dato ascolto a “ Danilo il matto” ?

Così, con il coraggio e la fortuna dei “matti”(2) , Danilo ha scavato un buco nel muro ( del genere fuga da Alcatraz) e, con due compagni di cella, anche loro stranieri, se ne sono andati, incuranti del rischio e delle conseguenze.

Come tutte le storie, questa dovrebbe essere alla fine,c’è però un ma, da quello che si è visto e sentito alla tv, gli evasi sono ricercati anche in …..(3) senza soldi credo che per loro sarà dura nascondersi a lungo.

Conoscendo Danilo poi combinerà sicuramente qualche disastro dei suoi soliti, e così la storia ricomincerà

Morale della storia: non c’è niente di avventuroso in questa evasione e quelli che sono fuggiti non sono eroi, ma tre disgraziati veri!

Le restrizioni e le conseguenze per gli altri detenuti di….che scontano la propria pena sono notevoli Questi ultimi vorrebbero chiudere i conti con la giustizia e non scapperebbero nemmeno se trovassero le porte spalancate.

Ma questa è un’altra storia !” di F. M.(4)

F.M. non è uno psicologo, né un professionista e neanche un intellettuale, né uno scrittore non è neanche un burocrate, ma, quando scrisse questa storiella, era detenuto nel carcere di una città di confine del nordest.

Egli provò a tracciare, con partecipazione e emozione che si percepiscono, la figura di un ragazzo, questo compagno di cella che una sera dei primi di ottobre 2005, con altri due, pensò di evadere dal carcere.

L ‘ episodio fu narrato in un articolo di fondo su un giornaletto prodotto in un piccolo carcere, a costo zero, e si chiamava – poiché credo che oggi non esiste più – l’ECO, scritto da detenuti e edito con la collaborazione e la responsabilità dell’allora direttore responsabile di un settimanale locale e pubblicato come inserto dello stesso giornale.

Di giornali fatti dentro ce ne sono tanti, è un modo per, come si usa dire, “ dare voce a chi non ha voce”, ma questo presentava una particolarità: come supplemento di un avviato settimanale, andava nelle edicole e quindi letto anche fuori del circuito penitenziario, come invece normalmente avviene per altri.

Ma non sono qui per raccontare la storia del giornale, ma quella dell’evasione.

Ecco perciò parte della nuda cronaca di giornalisti professionisti: “ Sembra un copione cinematografico e invece è cronaca: tre stranieri,ieri,- era il 7 ottobre 2005 – sono riusciti a evadere dal carcere, passando attraverso un buco nel muro, realizzato pazientemente,giorno dopo giorno, scavando soprattutto nelle ore notturne. M.T.,29 anni, R.A. 27, J.M. 19, arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, erano riusciti a nascondere il varco con un armadio.”

Fui avvertito dell’accaduto intorno alle 21,30 dal comandante, mentre ero a far quattro passi dopo cena, rimasi stupito dalla notizia anche se dovevo aspettarmelo: un carcere vecchio e scassato, con muri che si sfaldano da soli e antichi mattoni traballanti, sovraffollato, situato nello stesso antiquato edificio non solo del Tribunale, ma anche di altri uffici: il Demanio, l’Agenzia delle entrate e quella del territorio, al centro della città e vicinissimo al confine, con pochi soldi per ripararlo alla meglio e scarso e scadente personale di sorveglianza.

Ma che città è questa, dove in uno stesso palazzo ci sono tanti uffici e così diversi?

Situata a cavallo del confine, Comune con poco più di ventimila abitanti, piccolo capoluogo di provincia, che abolirei immediatamente, peraltro già abbandonata da uffici come il demanio e la sede della banca d’Italia. Città dove non succede mai niente, edifici vecchi e abbandonati, problematiche legate al confine come in tutti i luoghi di frontiera. L’immobile che ospita il carcere risale alla fine del XIX o agli inizi del XX secolo, sarebbe anche un bell’edificio ma non ha avuto una giusta manutenzione: gli uffici del tribunale e della Procura della repubblica sono in condizioni disastrose,nell’aula delle udienze ci sono infiltrazioni ad ogni pioggia, meno peggio gli altri uffici presenti.

Prima di muovermi cercai di avvertire il mio diretto superiore, ma non avevo il suo numero di cellulare, non me l’aveva mai comunicato, così avvertii il suo vice, che mi rispose: “ma io sto cenando! “almeno dammi il numero che lo chiamo io”, risposi.

Mi misi in macchina – abito a circa 50 Km di distanza - e raggiunsi il carcere.

Non mi era mai capitata una evasione in tanti anni di lavoro, almeno non direttamente; a Capodanno 2001, sostituivo un collega in ferie, quella volta erano cinque, avevano segato le inferriate e con il classico lenzuolo annodato avevano scavalcato il muro di cinta e se ne erano andati. La tragicommedia era iniziata al mattino presto, ma questa storiella non compare ufficialmente: mi raccontarono che un nottambulo, reduce probabilmente dalla festa di fine anno, passando fuori dal carcere aveva notato una specie di corda penzolante e aveva così suonato alla porta avvertendo di questa stranezza; da lì il personale di servizio, mezzo addormentato, aveva scoperto il fatto.

Era stato un bel Capodanno non c’è che dire!

Stavolta erano scappati solo tre. Carabinieri dappertutto,intorno all’edificio, appena entrato trovai il comandante esterrefatto, che mi accompagnò sul posto. Cosa avevano fatto? Sul muro della camera dietro un armadietto, di quelli soliti in uso ai detenuti e che per giunta avrebbe dovuto essere inchiodato al muro, un buco neanche molto grande, forse 70/80 cm di diametro, vecchi mattoni sparsi per la stanza.

Intanto mi chiesi come erano riusciti a passare; da lì erano entrati in una specie di corridoio buio, avevano sfondato una porta, ma si erano trovati sopra l’aula delle udienze del tribunale.

Tornati indietro avevano sfondato un’altra porta ed erano sbucati sulle scale che portano all agenzia del demanio, chiusa solo da una porta a vetri: sfondato il vetro ed entrati nel corridoio, hanno trovato il primo ufficio aperto, hanno aperto la finestra, si sono issati sul cornicione, hanno subito trovato una grondaia e, scivolando su questa si sono ritrovati in strada.

In una piccola città che è vuota anche di giorno, figuriamoci alle nove di sera! Non c’era neanche un passante e neanche una macchina. Da lì al confine in pochi minuti si arriva anche a piedi.

La cosa più seccante fu informare il funzionario di turno al Ministero, a Roma; mi rispose un tale di cui capii a stento il nome, il quale, molto seraficamente, prese la notizia con filosofia e mi augurò anche una buona serata!

Sequestrata la camera e chiusa con i sigilli, nei giorni successivi oltre a dovere scrivere relazioni di ogni tipo, ci fu un andirivieni di carabinieri che dovevano indagare: tre marescialli si piazzarono nel mio ufficio per “indagare”, non avevano evidentemente niente altro da fare, cercavano per forza un responsabile un complice all’interno neanche fosse evaso chi sa chi!

Sicuramente cerano state negligenze e superficialità nei controlli, ma vagli a spiegare che queste sono le normali condizioni di lavoro: non si riesce a far lavorare il personale , non c’è motivazione, se hai bisogno non rispondono neppure al telefono e non si fanno trovare, assenteisti, sindacalisti, . malattie vere e spesso fasulle

Un capitano veniva spesso a trovarmi, perfino il comandante provinciale, mai visti tanti carabinieri da me, e poi i giornalisti, che finalmente potevano scatenarsi a scrivere qualcosa.

L’inchiesta amministrativa interna non potè far altro che prendere atto dell’episodio ma non successe altro, le responsabilità erano si del personale che aveva fatto male il suo dovere di controllo, ma ce ne erano altre, anche molto più in alto, perché non si tiene un carcere in quelle condizioni, o se si tiene, bisogna metterci solo detenuti incapaci di muoversi. L’edificio era stato lesionato nel 1976 con il terremoto, e solo nel 2003! fu riaperta una sezione, per il resto era tutto rotto, muri deboli e vecchi mai ripristinati , mattoni ormai senza malta e facilmente amovibili.

Ma la commedia non finì lì: qualche mese dopo, arrivò una lettera di richiamo, del Capo del dipartimento diretta al suo vice, al provveditore e a me, in cui lamentava di non essere stato informato subito e personalmente.

Chi dovette giustificarsi, indovinate? L’ultima ruota del carro, cioè io.

Risposi, perciò, che avevo informato il Provveditore, il funzionario di turno a Roma, e che il mattino dopo avevo avuto un colloquio telefonico anche il vice-capo, a chi altro dovevo dirlo?

Ha ragione F.M. quando lamentò le conseguenze per gli altri detenuti; ho dovuto interrompere tante iniziative, ma solo perchè non mi fidavo più di quel personale incapace.

La libertà dei tre durò poco, uno alla volta furono ripresi dalla polizia dello Stato confinante e consegnati di nuovo alla giustizia italiana.

Uno dei tre, mi sembra proprio il Danilo, fu riportato nello stesso carcere, mi feci spiegare, tra le altre cose, come erano passati in quel buco così piccolo.

Aveva ragione F.M., Danilo era proprio “matto”!.

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(1) lo ”scopino” è il detenuto che viene addetto alle pulizie; per mancanza di soldi e di posti di lavoro e per consentire a tutti i condannati di guadagnare un minimo indispensabile almeno per le sigarette, si è inventato un lavoro generico a termine, e a rotazione.

(2) “matto” non vuol dire né pazzo né è usato in senso negativo, anzi…, indica soltanto una persona un po’ strana, un po’ suonata, ma in senso quasi affettuoso.

(3 nome dello stato estero e della città sono stati omessi per evitare ogni possibile riconoscimento

(4) le iniziali, del testo originale, sono state cambiate, così come il vero nome del personaggio

descritto


giovedì 20 ottobre 2011

Sofia e Francesco

La mattina del 14 febbraio 1861, una piccola nave, una corvetta battente bandiera francese con a fianco un vessillo bianco con uno stemma dorato al centro, navigava lentamente nella foschia del mar Tirreno, diretta a Terracina. Non c’era vento, l’aria era fredda, umida e immobile, stagnante, il mare calmo. A bordo, non era una giornata come le altre: comandante, ufficiali e marinai avevano indossato le uniformi di gala, ma non c’era nessuna festa. La” Mouette “, - il Gabbiano, questo il nome della nave -, sarebbe passata alla storia per gli ospiti che conduceva: Francesco II di Borbone, re – ultimo - delle due Sicilie, e la moglie Maria Sofia Wittelsbach di Baviera.

Foto del 1867

Essi avevano da poco lasciato la fortezza di Gaeta, dove avevano resistito, per tre mesi, all’assedio da terra e da mare, delle truppe piemontesi. Entrambi giovanissimi, lui 25 lei 21 anni, il re indossava una semplice uniforme blu, priva di ogni decorazione, Maria Sofia portava un semplice abito scuro e un cappellino con una piuma verde. Francesco e Sofia erano sul ponte, in silenzio guardavano verso quella terra, la propria terra, che stavano abbandonando.

Era la fine di uno Stato, dello Stato delle due Sicilie, il regno secolare fondato nel 1130 da Ruggero II, il normanno, il più grande territorio della penisola italiana. Francesco aveva detto a tutti che sarebbe tornato presto, ma non ci credeva, era solo apparenza.

(Francesco II di Borbone, fotografia del 1860)

Ripensava a quanto era successo, con Garibaldi, dalla Sicilia fino a Napoli il 7 settembre 1860, con il cugino Vittorio Emanuele, che non gli aveva mai dichiarato guerra,e tradimenti, corruzione, incapacità. Il “caro” cugino si era già preso, senza alcuna dichiarazione di guerra, la Toscana, con zio Leopoldo Lorena, che se ne era scappato senza sparare un colpo, poi Parma e Piacenza con Maria Luisa Borbone e il figlio piccolo di pochi anni, e Francesco di Modena, e l’Emilia-Romagna e le Marche.. Eh, ma qui aveva dovuto aspettare e combattere. Di questo Francesco era soddisfatto. Ma come era stato possibile che le sue truppe, quelle truppe, quei soldati che si erano battuti bene sul Volturno e poi a Gaeta, non erano riusciti a buttare a mare una banda di disperati in camicia rossa? E tutti quegli altri che non aveva potuto accogliere nella fortezza, e che aveva mandato oltre i confini dello stato pontificio, e che alimentavano la resistenza, e che ancora resistevano nelle fortezze di Messina e Civitella del Tronto. Si sentiva tranquillo, come liberato da un peso, gli dispiaceva più per Sofia che per lui stesso.

Sofia, la moglie, a Gaeta era diventata una eroina, era stata vicina a lui, e a tutti i soldati che l’avevano apprezzata.

Ma quanti pensieri si affollavano nella mente: la sua vita, la madre che non aveva conosciuto, Cristina di Savoia, il padre Ferdinando,quello si che era”nu’ rre”, avrebbe potuto prendersi tutta l’Italia se solo avesse voluto. E il palazzo di Portici, dove aveva trascorso l’adolescenza e i suoi precettori, e poi Sofia, bellissima quando l’aveva vista la prima volta a Brindisi, e poi gli ultimi fatti…. Avrebbe potuto restare a Napoli? Avrebbe dovuto far sparare sulla città? Traditori e incapaci quei generali ai quali si era affidato: Nunziante un traditore, Lanza un incapace, che aveva ceduto Palermo, e Landi, a Calatafimi, dove stava vincendo e si era ritirato, e anche suo zio Leopoldo, il conte di Siracusa che faceva il liberale, e i capitani della flotta che si erano consegnati ai piemontesi? E Filangieri, troppo vecchio per intervenire,….e tutti gli altri dalle Calabrie agli Abruzzi, qualcuno era stato anche ammazzato dalle truppe arrabbiate. E la Costituzione, data ormai troppo tardi. E quel fetente di Liborio Romano, che, come gli avevano riferito, aveva arruolato i camorristi e guappi nella polizia, per mantenere l’ordine pubblico in città. Se lo ricordava quel giorno del 6 settembre del ’60, quando prima di partire da Napoli, tutti i ministri andarono a salutarlo e a don Liborio, con quella sua aria tronfia e arrogante, aveva detto” don Libò, guardat’ o cuollo”, cioè bada alla tua testa, che se torno….. e ricordava il ministro Michele Giacchi al quale aveva detto:” voi sognate l’Itala e Vittorio Emanuele; ma non vi resteranno neanch’ ll’uocchie pe’ chiagnere” - purtroppo sarete infelici -.

(Litografia,Palazzo Doria d’Angri,Napoli 1860, ospitò Garibaldi appena giunto a Napoli)

Francesco in quel momento non poteva saperlo, ma mai previsione fu più azzeccata.

Poi aveva trovato a Ritucci,” nu brav’ommo”, fedele ai Borbone, un gentiluomo all’antica, al contrario di quel nano di Cialdini, quel piemontese arrogante, e quel vigliacco cialtrone di Persano, l’ammiraglio. Forse, in tutto questo schifo, era meglio Garibaldi, almeno era onesto ed era stato pure licenziato dal Savoia. Bravo Ritucci, mai avrebbe tradito e si era comportato bene sia al Volturno sia a Gaeta. E Beneventano del Bosco, irruento, audace, forse troppo, e fedele, e tutta la truppa, ripulita da traditori, corrotti, incapaci e vigliacchi.. In effetti aveva sbagliato, doveva “montare a cavallo”, come gli suggerivano la moglie e i fratelli e fermare l’avanzata garibaldina, prima, forse nella piana a sud di Salerno e non scappare dalla capitale. Sarebbe cambiata qualcosa? Chissà! Quel Napoleone, un doppiogiochista, l’Inghilterra non ne parliamo, mai fidarsi di un inglese, ce l’avevano già con papà, per quegli affari che volevano combinare in Sicilia, e i siciliani fissati con l’autonomia da sempre, e mi dispiace di mio cognato Francesco Giuseppe, che ha solo minacciato, ma non ha mosso un dito. Intanto, c’erano già rivolte in tutto il sud, si erano accorti che i fratelli del nord, i liberali, non erano poi tanto fratelli e neanche tanto liberali, a cominciare da quello che era successo a Bronte.

E Sofia? Una eroina per i soldati, sarà ricordata sicuramente.

Ridotti a vivere sotto i bombardamenti in una casamatta con tre stanzette condivise con altri,,vi restarono per tutta la durata dell’assedio. Lì, pensava Francesco, aveva vissuto i giorni più intimi e più intensi della sua unione con Sofia. Chi sa se qualcuno sta leggendo quel messaggio che aveva firmato prima di partire, diretto ai soldati:

“La fortuna della guerra ci separa:Dopo cinque mesi nei quali abbiamo combattuto insieme per l’indipendenza della Patria, dividendo gli stessi pericoli, soffrendo le stesse privazioni, è giunto per me il momento di mettere un termine ai vostri eroici sacrifici……. Grazie a voi è salvo l’onore dell’Armata delle due Sicilie; grazie a voi può alzare la testa con orgoglio il vostro sovrano…..” Concludeva dicendo: ” Non vi dico addio, ma arrivederci. Conservatemi intatta la vostra lealtà, come vi conserverà eternamente la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re Francesco”. Belle parole, ma, ormai quel che è fatto e fatto, chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato, il regno è finito.

“ Francois, nous sommes arriveè - gli stava dicendo Sofia,-” comment te porte-tu, Francois? Ca va?”, si preoccupò la regina notando l’intenso pallore del marito. “ Maestà, disse poi il marchese Pietro Ulloa -, simm’ arrivate”. “ sto’ bbuono, Marì, jamme”, rispose il Re. Erano a Terracina, territorio dello Stato pontificio e ospiti del Papa Pio IX. Prima di scendere dalla nave, l’equipaggio e il comandante resero gli onori militari e il re, da persona civile quale era, ringraziò il comandante per la tranquilla navigazione e per le cortesie ricevute. Quindi,dando il braccio alla regina, sbarcò.”..La giornata era fredda e perciò il re portava sulla divisa un gran mantello bianco – così si espresse un testimone, il cronista francese Garnier -…sembrava addormentato e camminava come un sonnambulo, in un sogno. Invece la regina era “ ..irrequieta e curiosa”. Ad aspettarli sulla banchina, oltre al delegato del Papa e agli zuavi francesi che rendevano gli onori, essi videro una folla di soldati napoletani, di quelli che non avevano trovato posto a Gaeta, sbandati, e anche civili che urlavano: “Evviva ‘o RRe nuosto!, Vulimmo vedè ‘o Rre !”. Un breve saluto e partirono per Roma, dove arrivarono dopo le otto di sera e furono ricevuti, al Quirinale, dal cardinale Antonelli, Segretario di Stato. Iniziava così l’esilio; i sovrani e l’intera famiglia si installarono in quel palazzo, assumendo – secondo P.G. Jaeger – “ l’atteggiamento esteriore di chi ritiene di non poter restare assente dalla patria più di qualche mese”. Non sarebbero più tornati.

Nell’anno dei 150 anni dell’unità d’Italia, oltre alle normali esaltazioni e alla esagerata retorica dei festeggiamenti, sono stati pubblicati molti saggi e storie sui vinti del risorgimento. Non fa male, senza voler mettere in discussione l’ unità, e senza aver paura di essere tacciati per nostalgici o revisionisti, ricordare persone e fatti preunitari e riscoprire storia, identità e verità per troppo tempo nascoste. Francesco II di Borbone era diventato Re alla fine di maggio 1859, il suo trono era già traballante e isolato dal punto di vista internazionale. Nel Nord Italia c’era già la guerra con l’Austria – la 2° guerra di indipendenza -, il Piemonte si stava prendendo la Lombardia e poi le regioni dell’Italia centrale. C’era molto fermento anche in Sicilia, un re accorto e esperto con ministri decisi, avrebbe potuto e saputo come intervenire, Francesco no. A maggio 1860 l’avventura di Garibaldi aveva dato inizio allo sfacelo totale. Con la fine del regno delle due Sicilie, iniziava per l’Italia la questione meridionale, ma era già iniziata quella guerra, che fu definita superficialmente il brigantaggio meridionale,le rivolte di legittimisti contro l’occupazione militare del sud, represse con fucilazioni sommarie, e violenze d’ogni genere, da ogni parte combattente, una guerra senza quartiere, e soprattutto senza speranza,dei vinti contro i vincitori .

(La fortezza di Gaeta,dipinto di C.Bossoli,1861)

Tutti i soldati del disciolto esercito borbonico erano stati arrestati e imprigionati in lontane fortezze del Piemonte, veri e propri campi di concentramento, mentre gli sbandati e quelli liberi fomentavano e partecipavano alla rivolta che durò per anni. Cosa ci si poteva aspettare dal luogotenente, mandato a Napoli da Cavour, tal Luigi Carlo Farini, che già aveva dato pessima prova di se a Modena, che così scriveva al suo capo:” altro che Italia, questa è “Affrica!” I beduini a riscontro di questi” caffoni”, sono fior di virtù civile. Napoli è tutto, la provincia non ha popoli, mandre: qualche barone o di titolo o di gleba, le mena……, con questa materia, che cosa vuoi costruire?”. Con questo signore, era difficile pensare di unificare l’Italia e gli italiani. Stranamente un popolo conquistato e vinto, una “mandra”, è oggi più italiano e unitario di altri, e non si sogna neppure di pensare a una secessione, come invece fanno quei barbari, i caffoni di quel paese che non esiste, come ha recentemente ricordato il Presidente della repubblica, i nipoti di quelli che scesero in “Affrica”, proclamando di essere fratelli d’Italia. E, visto che erano fratelli e avevano anticipato tanti soldi per “liberarli”, svuotarono le ricche banche meridionali, le regge, i musei e anche le case private, rubando tutto perfino le posate. E questo era solo l’inizio.

Quello che era stato scritto a carico dei Borbone di Napoli – e riconosco che, qualche volta, a ragione -, descrivendoli come il male assoluto, da parte di liberali italiani e stranieri, non era niente rispetto alla propaganda negativa successiva.

Fu avviata una vera e propria “damnatio memoriae”, oggi diremmo una gigantesca macchina del fango, con l’obiettivo di cancellare i Borbone dalla memoria delle popolazioni meridionali. Il minimo era farli passare per oppressori stranieri, al contrario dell’” italianissimo” Savoia! Furono utilizzati tutti i mezzi disponibili, anche il ridicolo: “la messa in ridicolo di tutto quanto riguardava Francesco II – dice P.G.Jaeger, che non è un meridionalista né un filo-borbonico – e il suo regno, riuscì, sotto il profilo della propaganda, più efficace della denunzia che riguardava la”brutalità”di suo padre Ferdinando. E lo dimostra la circostanza secondo la quale ancora oggi, la figura di Franceschiello è ricordata con ironia e disprezzo”. Basti pensare alla caricatura di questo giovane re nello stesso diminutivo del nome, che non era assolutamente vero e comunque usato solo per affetto, dal momento che il vero soprannome in famiglia era “lasa”, poiché il suo piatto preferito erano le la lasagne. Basti pensare al modo di dire ” l’esercito di franceschiello”, per indicare con disprezzo soldati che non si battono, ma scappano e si sciolgono subito, quando basta vedere i risultati conseguiti dall’esercito italiano dopo il 1861. Il “generalissimo Cialdini, il duca di Gaeta, che oggi sarebbe ricercato e giudicato come criminale di guerra, si dette molto da fare nel napoletano, come luogotenente, dopo pochi mesi, contro gli insorti, fece quasi 9000 morti, 7000 prigionieri e 13000 deportati, come e peggio dei nazisti. Ma contro un esercito attrezzato come quello austriaco nel 1866, fu battuto a Custoza, facendo una pessima figura, e così anche quel super ammiraglio Persano, che perse la flotta a Lissa. Basti pensare al termine “borbonico”, per indicare retrogrado, lento, farraginoso a tutto ciò che non funziona nella pubblica amministrazione, quando in realtà la burocrazia imposta in tutto il paese unito fu quella piemontese, cioè dei conquistatori, come accade in tutte le guerre, anche odierne.

E con la regina fu ancora peggio, contro di lei fu avviata una incredibile campagna scandalistica; a Maria Sofia furono attribuite varie nefandezze ed amanti, arrivando anche a realizzare un osceno e pessimo fotomontaggio, peraltro subito scoperto e che non pubblico per rispetto. Nei confronti dei Borbone erano già da anni state messe in atto quelle che oggi chiamiamo strategie di comunicazione di massa, propaganda per “inventare” un nemico, lo “straniero”, anche se è vero quel che afferma Fabio Cusin, cioè che “ Granduca( di Toscana), Borbone e papalini fecero di tutto per rendersi più malvisti”.Nei libri scolastici i Borbone venivano dipinti come i classici mangiatori di bambini e i fatti del Volturno e di Gaeta trattati con due parole, mentre si calcava la mano sui briganti. Ancora oggi storici di nome, come Lucio Villari, trattano in quattro righe l’assedio di Gaeta e lo declassano “ alla storia personale dei sovrani napoletani e alla fedeltà e al sacrificio eroico di quanti restarono con loro”, come se non si trattasse, comunque, della storia d’Italia e di migliaia di morti, italiani di entrambe le parti combattenti.. La realtà, nascosta per anni, era stata ben diversa e solo da poco si è iniziato a squarciare il velo- e in quest’anno in occasione dei 150 anni dell’unità - non si può aver paura di una verità diversa da quella raccontata. Molte erano già state le voci che si erano levate a favore di una riabilitazione del giovane re, almeno per liberarlo dalla disonesta ma propagandata fama di una sua “imbecillità”. “mitezza di carattere – Giuseppe Campolieti in una completa biografia -, signorilità, bontà non significano ingenuità o dabbenaggine”.

Arrigo Petacco, nella “ Regina del sud” scrive:” se come vuole la migliore retorica, almeno un raggio di gloria deve illuminare il tramonto di una dinastia, Francesco II e Maria Sofia se lo guadagnarono sugli spalti di Gaeta. Perché se è vero che un re e una regina devono mostrarsi tali nei momenti decisivi, gli ultimi sovrani di Napoli si rivelarono in quella occasione degni di ammirazione e di rispetto. Oggi, alla luce della Storia, il loro comportamento a Gaeta acquista addirittura il significato di un presagio. Nessun raggio di gloria, infatti, illuminerà il pronipote del “re invasore” quando, ottantasei anni dopo, sarà anche lui costretto a prendere la via dell’esilio”. Si riferisce a Umberto II, cacciato dalla volontà popolare e al padre, a quel Vittorio Emanuele III che scappò di notte, abbandonando tutto e tutti al loro destino. E che dire, poi, degli attuali discendenti?

(Maria Sofia)

Di questo avrebbe gioito sicuramente Maria Sofia, che non si era mai arresa di fronte alla storia e che dopo la morte del marito continuò, e nessuno potè fermarla, una lunga battaglia contro gli odiati Savoia. Maria Sofia di Wittelsbach, sorella della più famosa Sissi, moglie di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, è stata descritta come” principessa bellissima e giovanissima, ardita, fantastica e impulsiva come suo padre e sua sorella Elisabetta, - secondo Raffaele de Cesare, storico pugliese, deputato liberale -, e vivace come la madre, non era la più adatta a entrare nella Corte napoletana, immagine di tristezza, di vecchiezza e di pregiudizio; né a divenire moglie di un principe piuttosto insipido,soggiogato dagli scrupoli religiosi, inesperto della vita, e il quale non aveva conosciuto mai donne, anzi le fuggiva, facendosi rosso nel viso quando non ne poteva evitare gli sguardi”. Come si usava, aveva sposato Francesco di Borbone, erede al trono, per procura, e imbarcatasi a Trieste, lo aveva incontrato per la prima volta a Brindisi, pallido, magro, alto e serio, e timidissimo; Sofia aveva portato una ventata di aria nuova e di allegria.

A Gaeta aveva mostrato di che stoffa era fatta, l’esuberanza e il coraggio la portavano dove il pericolo era maggiore, visitava le postazioni di artiglieria più esposte e avanzate, portando un sorriso e un incoraggiamento ai soldati. “ Se Francesco- scrive Antonio Ghrelli – avesse il temperamento di sua moglie, venderebbe più cara la pelle …”. Nel periodo romano era nata Maria Cristina, morta però dopo appena tre mesi.

L’esilio durò 33 anni. Francesco II di Borbone, che si faceva chiamare semplicemente “sig. Fabiani” o qualche volta” duca di Castro” morì, malato di diabete, il 27 dicembre 1894 ad Arco di Trento, ospite dell’arciduca Alberto d’Asburgo,aveva 58 anni ma sembrava un vecchio. Maria Sofia di Wittelsbach, a Monaco il 18 gennaio 1925, a 83 anni

Alla notizia della morte del re, sul “Mattino” di Napoli, Matilde Serao, dando la notizia e commentando l’esilio del re scrisse: .” galantuomo come uomo, gentiluomo come principe, ecco il ritratto di don Francesco di Borbone”.

Il mito dell’eroina di Gaeta era tale che ancora cinquantanni dopo i fatti, il poeta Ferdinando Russo la ricordava nel suo:” ‘o surdato ‘e Gaeta”.: “ E’ ‘a Riggina! Signò.. quant’era bella..! e’ che core teneva!...Steva sempe cu’ nuie….chella era na’ fata!...”

Pochi anni dopo anche D’Annunzio la ricordava come “ aquiletta bavara” ne “Le vergini delle rocce”, un romanzo ambientato nell’ex regno delle due Sicilie.

(S.Chiara, chiostro)

Solo dopo 123 anni, nel 1984, dopo più di sessantanni di trattative tra eredi e Stato italiano, come se lo stato avesse ancora paura di quei nomi, di quel “mito” di Gaeta, e di quel che aveva tenuto nascosto, i resti di Francesco II e quelli di Sofia furono finalmente restituiti a Napoli, nella loro città, per essere sepolti nella chiesa di S. Chiara, nel Pantheon dei Borbone, nell’ultima cappella a destra, accanto a quelli degli altri sovrani delle due Sicilie.

Per saperne di più:

Raffaele de Cesare. La fine di un regno, ed. Longanesi

Pier Giusto Jaeger: Francesco II di Borbone, l’ultimo re di Napoli, ed. Mondadori

Lucio Villari: Bella e perduta, l’Italia del Risorgimento, ed. Laterza

Giuseppe Campolieti: Re Franceschiello, l’ultimo sovrano delle due Sicilie, ed. Mondadori

Angelo del Boca: Italiani, brava gente? Ed.Neri Pozza, Vicenza

Arrigo Petacco: la Regina del Sud, ed. Mondadori

Gigi di Fiore: I vinti del Risorgimento, ed. Utet

: Controstoria dell’unità d’Italia, ed. BUR saggi

: Gli ultimi giorni di Gaeta, ed. Rizzoli

Pino Aprile: Terroni, ed. Piemme

Ferdinando Russo: Poesie napoletane, ed. Newton.

Fabio Cusin: Antistoria d’Italia, ed. Mondadori


martedì 4 ottobre 2011

Il Rione Sanità

Una calda e bella domenica di metà settembre ha fatto da sfondo ad una escursione, o forse meglio parlare di una incursione, nel rione Sanità di Napoli.
L’ Associazione “Visite guidate Neapolisitinera “ ,( vedi l’interessante sito), organizza visite su diversi itinerari, alla ricerca della storia, della cultura e dell’arte della città, così come, da dilettante, avevo narrato in “Itinerari”, già pubblicati su articoli on line di “arte ricerca.com”.
Ho approfittato del fatto di essere nella città, per parteciparvi, anche perché, pur essendo nato a pochi passi dal rione, mai c’ero stato.
Oggi il rione Sanità, conosciuto anche come Vergini e sulle carte come quartiere Stella, è più tristemente noto per fatti di sangue, delinquenza, camorra, e per i preti e le iniziative anticamorra. “Il sindaco del rione sanità” è una commedia di Eduardo del 1960, in cui si traccia la figura di don Antonio Barracane, un misto di vecchio camorrista, padrino e mammasantissima, che risolve i problemi nel suo rione, senza sparatorie, rispettato e riverito dai paesani, ma alla fine viene accoltellato da un uomo qualsiasi. Il rione è noto perchè vi era nato il principe della risata, Antonio de Curtis, Totò
L’iniziativa ha richiamato l’interesse sulla storia del quartiere, mi ha stupito la grande partecipazione della gente, almeno 50/60 persone, giovani e anche ragazzi, guidati dalla dott.sa Roberta Nicastro, storico dell’arte, e presidente della Associazione.
Sono meravigliato anche dal fatto che, in una bella giornata di settembre, queste persone non vanno al mare, non pensano al sole e all’abbronzatura, come accadrebbe nella città in cui vivo, dove l’esigenza primaria è “ andar al bagno a ciapàr sol”, ma sono interessati alla loro storia, al loro passato. E sono tutti napoletani, non vedo stranieri e non sento parlare altre lingue o dialetti, napoletani che vivono forse fuori, lo straniero forse sono io, che vengo da più lontano..
La passeggiata, iniziata davanti al Museo archeologico nazionale, si ferma prima davanti alla porta S.Gennaro, l’ingresso settentrionale della antica città. Di qui infatti, seguendo il corso della via Forìa, passavano le mura della vecchia città, che poco più avanti ripiegavano verso S. Giovanni a Carbonara, passando poi per Castel capuano e proseguivano oltre.
La posizione attuale della porta è quella del 1537, quando il vicerè don Pedro de Toledo allargò le mura, fu cosi chiamata perché portava alle catacombe di S.Gennaro, sulla collina di Capodimonte.
Il Santo è ricordato anche nell’affresco dipinto sulla porta. Risale al 1656 durante una gravissima pestilenza e fu dipinto da Mattia Preti, condannato dal Tribunale a affrescare tutte le porte della città, poiché il pittore calabrese aveva superato il cordone sanitario, e ucciso una guardia che voleva impedirglielo.
Per narrare, almeno superficialmente, la storia della zona bisogna risalire molto indietro nel tempo.
“ Dal sistema collinare del Vomero e di Capodimonte scendevano a valle corsi d’acqua a carattere torrentizio,lungo l’attuale via Pessina, via Cacciottoli,il Cavone, Salvator Rosa, S.Teresa al Museo, Via Stella e via Vergini. Questi corsi d’acqua – racconta Cesare de Seta – defluivano in due direzioni, il cui tracciato si può individuare nelle attuali via Foria e via Pessina”.
De Seta lo chiama Rubeolo, e altri Sebeto, fiume che isolava., e proteggeva, insieme alle mura , a nord, la nuova città.
Tutta l’area era boscosa e selvaggia: le acque, anche piovane, avevano creato veri e propri valloni, incidendo profondamente nel tufo, e depositando negli stessi valloni la cosiddetta ”lava dei vergini”, composta da acque, fango e detriti.

La zona fu destinata da subito al seppellimento dei morti e a cerimonie religiose, e fu chiamata Vergini e poi Sanità.
Vergini, sembra, da Eunostidi, adoratori di Eunostos, cioè un dio minore,di cui è inutile narrare il mito, ma era considerato un dio della temperanza e quindi della verginità, quindi sacerdoti vostati alla castità, che si recavano extra moenia , per adorarlo e fare funzioni religiose.
Siamo nel periodo greco della città, sono state istituite le fratrie – anche gli Eunostidi lo sono -, associazioni di carattere religioso e/o politico dell’antica Grecia, che operavano su un determinato territorio della città, in cui erano iscritte le famiglie di cittadini appartenenti a quel territorio.
Esse si occupavano anche dell’amministrazione del territorio di competenza e ne gestivano tutte le attività, il che può già far pensare a un antenato di qualche associazione odierna, non proprio lecita. Bartolomeo Capasso ( Napoli greco-romana, pag.91 ) individua anche il quartiere degli Eunostidi:
“ essendosi trovata fuori della porta S.Gennaro, nella via dei Vergini, la tomba di una famiglia ascritta alla fratria degli Eunostidi, è lecito supporre che questa fratria abbia avuto le sue case non che lungi dai propri sepolcri, e che perciò il suo quartiere corrisponda alle isole poste tra il teatro e il muro settentrionale della città”.
Sul nome di Sanità ci sono due teorie: la prima ha pensato alla salubrità del luogo, pieno di boschi, e sorgenti d’acqua e ville per riposo e svago, mentre altri si riferivano invece a presunti miracoli avvenuti perle preghiere rivolte ai morti di quei cimiteri.
In effetti l ‘ area, oltre ad essere utilizzata per l’estrazione del tufo, fu destinata nell’ordine, a necropoli pagana, a catacombe paleocristiane e, successivamente a cimitero cristiano.
Qualcuno si è spinto a sostenere che la poesia “ ‘a livella”, Totò l’abbia scritta proprio ambientandola nel cimitero della sua zona.
La nostra brava e simpatica guida ci racconta tutto in maniera chiara e semplice, meritando l’attenzione di tutti e nessuno, mi sembra, ha mostrato segni di noia.
Cosi fu per secoli: c’erano piccoli edifici religiosi-cimiteriali, come quello che oggi è sotto la chiesa di S.Maria alla Sanità.
In età angioina, con Napoli capitale del regno, ebbe inizio il contenimento dei corsi d’acqua provenienti dalle colline, con opere fognarie e idrauliche, e la zona perciò divenne più agibile.
Si delineò anche la strada che partiva dalla porta S.Gennaro e saliva verso l’ interno, e iniziò la formazione di un piccolo borgo intorno agli edifici religiosi esistenti.
Con il passare degli anni , piccole fattorie e case sorgevano all’esterno delle mura, oggi diremmo abusive, perchè c’erano espressi e ripetuti divieti di edificare fuori le mura.
Veri e propri borghi sorgevano dappertutto, sia nella parte occidentale della città sia nella parte orientale. Nella Sanità, cominciò una consistente urbanizzazione: giardini, orti , grandi proprietà fondiarie e palazzi. La strada, alla fine del XVII sec., era diventata, grazie anche ad interventi urbanistici, la principale via di comunicazione tra collina e città, attraversava la vallata e raggiungeva Porta S.Gennaro. Tutta la nobiltà, i vicerè e poi re Carlo e Ferdinando, per recarsi nelle loro riserve di caccia ,e nei casini di caccia, dovevano passare di là.
Lasciata via Foria, appena entrati nel Rione, siamo in un altro mondo. Mi sembra di aver oltrepassato una soglia, alle nostre spalle è domenica, i negozi sono chiusi, c’è poca gente in giro, davanti invece è tutto aperto, la strada è inondata da gente, da bancarelle che espongono merce di ogni genere, frutta, verdura, pesce, indumenti……
Attraversiamo abbastanza rapidamente la via dei Vergini, arrivando al palazzo detto dello Spagnolo.
Tutti i palazzi nobiliari d’epoca di Napoli sono in genere aperti, a Spaccanapoli, a S.Biagio dei Librai, e anche qui; essi mostrano al passante cortili più o meno grandi, dove una volta transitavano carrozze o cavalli, scalinate, piante e giardini incredibili, antiche reliquie di altri periodi.
Il palazzo dello “Spagnolo” non fa eccezione a questa regola
Esso sorge proprio sulla strada dei Vergini, che fu utilizzata fino a quando, nel 1810, non fu inaugurata la strada diretta e il ponte sulla Sanità,che consentiva un collegamento più rapido.
Perché dello”Spagnolo”? La costruzione risale al 1738 - da quattro anni regnava a Napoli Carlo di Borbone - , per conto del marchese Nicola Moscati di Poppano, che, malgrado la nobiltà, esercitava il mestiere di mercante di cavalli e buoi. Diventato immensamente ricco, anche grazie a un matrimonio ancor più ricco, volle farsi costruire una dimora degna di lui.
Si racconta che tutto andò bene finche visse don Nicola, ma alla sua morte, già il figlio iniziò a dilapidare il patrimonio.
Così, nel corso degli anni successivi, a seguito di una serie di vicissitudini anche politiche, gli eredi si ritrovarono nella impossibilità di mantenere il palazzo, i creditori si rivolsero al Tribunale e il palazzo fu diviso in varie parti. Nel 1813, una parte fu venduta a don Tomaso Atienza, detto lo Spagnolo, che peraltro era procuratore e agente di don Vincenzo Osorio di Madrid.
La costruzione del palazzo viene attribuita a Ferdinando Sanfelice, anche se sembra più certo che solo il frontale e il cortile interno siano opera del suo genio.
L’architetto Sanfelice, era nato a Napoli nel 1675 da una famiglia definita “patrizia” che abitava nel Rione. Pur non avendo goduto della stessa fama del più giovane Vanvitelli, egli è comunque considerato uno degli architetti più creativi del ‘700.
La sua opera era basata tutta sulla scenografia e su monumentali scaloni aperti, che danno l’impressione di una scena teatrale.
Ne abbiamo un bell’esempio in questo palazzo: nel cortile interno una scala monumentale a doppie rampe , con cinque aperture ad arco meglio dette fornici. Si resta stupefatti dalla soluzione architettonica e anche dal buon stato di conservazione, dalle scalinate e dai soffitti affrescati e lunette decorate in stucco.
Ferdinando Sanfelice però, sulla via Arena alla Sanità, poco più avanti dello Spagnolo, già nel 1725, decise di costruire un palazzo per se e la famiglia, con lo stesso stile architettonico.
Tutti i palazzi hanno alle spalle, in un secondo cortile, un ampio giardino, l’ho visto salendo per le rampe del palazzo Sanfelice, chiuso al pubblico.
Ora ci dirigiamo velocemente nella piazza della Sanità, proprio sotto al ponte che porta a Capodimonte, davanti alla grande chiesa barocca di S. Maria della Sanità, edificata nei primi anni del XVII sec., conosciuta più popolarmente come chiesa di “ S,Vincenzo”, “’o Munacone”, santo protettore dello stesso rione, al quale la stessa chiesa è dedicata.
A seguito di un violento nubifragio, nel 1569 vennero alla luce i resti della chiesa di S.Maria della sanità, sepolta molti secoli prima in analoghe circostanze, chiesa paleocristiana e scavando più sotto antiche catacombe intitolate a S.Gaudioso.
In questa occasione fu ritrovata quella che viene ancora oggi ritenuta la più antica immagine della Madonna, nel napoletano, che è oggi esposta nella antica chiesa cimiteriale.
Si ritenne perciò di dover costruire sopra una nuoca chiesa, l’incarico fu affidato al ”laico domenicano” – cosi lo definisce Gennaro Aspreno Galante - Giuseppe Donzelli, soprannominato Frà Nuvolo. Questi non distrusse l’antica chiesa cimiteriale, ma “con idea sorprendente e nuova vi collocò di sopra il maggior altare e d’innanzi il maestoso tempio di forma ellittica a cinque navi”.
Egli fece una cupola con mattonelle maiolicate e un bel campanile. All’interno troviamo molti dipinti di Luca Giordano. Ma quello che colpisce subito il visitatore è l’altare maggiore, sopraelevato rispetto ai fedeli, posto proprio sopra l’accesso alla antica chiesa e alle catacombe.
Per entrare qui, dobbiamo cambiare guida, sembra che faccia parte di una Associazione culturale “gradita al Vaticano”!
Mentre apprezziamo l’antica pavimentazione e il dipinto di S. Maria della Sanità, ci viene proibito di usare il flash, il che, considerato che siamo senza luce e sotto terra, equivale al divieto di fare fotografie.
Le catacombe di S. Gaudioso costituiscono il secondo cimitero paleocristiano di Napoli, per ampiezza e valore. Settimio Celio Gaudioso era vescovo nella provincia romana d’Africa. Fu scacciato nel 439 da Genserico, capo dei Vandali che avevano conquistato la regione. Egli si stabilì a Napoli dove morì introno al 452 e fu deposto in una tomba del cimitero della Sanità che da lui appunto, prese il nome. Nella stessa catacomba fu sepolto poco dopo anche Nostriano, vescovo della città.
Lungo le pareti delle catacombe si trovano cubicoli, qualcuno affrescato altri con mosaici. Sulle pareti appaiono solo teschi e una suddivisione tra uomini da un lato e donne dall’altro.
Le catacombe furono utilizzate anche nei periodi successivi dai frati domenicani; ci vengono mostrati gli “ scolatoi “, piccoli loculi con sedili bucati al centro, dove venivano sistemati i cadaveri e messi appunto a scolare.
La macabra operazione tendeva alla decomposizione della carne e alla eliminazione di liquidi e di gas dai cadaveri prima di seppellirne le ossa; una operazione analoga l’abbiamo trovata nel castello Aragonese di Ischia, nel monastero delle monache.( vedi “ Il castello aragonese “ su questo stesso blog o su arte ricerca.com, articoli on line).
A questa attività erano addetti alcuni operatori, che “aiutavano” i cadaveri a scolare, mediante punzecchiature e buchi praticati nella carne, e la raccolta poi dei liquidi: immaginiamo solo l’operazione e il puzzo che doveva esserci. Adesso si spiegano anche le imprecazioni napoletane: “ puozz’ sculà” o “ schiattamuorte’”.
L’escursione si conclude al cimitero delle Fontanelle, che come già spiegato danno il nome alla salita che vi ci conduce che non è altro, secondo gli studiosi , che il vecchio impluvio, e alla zona che secoli fa era piena di sorgenti d’acqua.
La strada per arrivarci è in salita, si restringe passando attraverso abitazioni private, panni stesi per strada, i cosiddetti bassi, abitazioni a livello stradale, e persone che guardano incuriosite questo corteo che incede ad andatura sostenuta, sembra si sia fatto un pò tardi.
Il cimitero delle Fontanelle è una grande cava tufacea, altissima e larga, e riaperta da poco al pubblico. All’ingresso un specie di baracchino provvisorio, munito però di antenna satellitare, fa da ufficio e un gruppo di 4/5 custodi chiacchierano per conto loro e disturbano anche le spiegazioni della nostra guida..
L’impatto, anche se ci si aspetta di vedere cose già viste per tv, è violento, macabro, …..
Migliaia di teschi ordinati e sistemati uno sull’altro in ordine quasi perfetto, alcuni oggetti probabilmente regali o ex.voto, donati per grazia ricevuti a testimonianza di credenze e superstizioni popolari.
L’origine di questo cimitero si fa risalire al periodo a cavallo tra XVI o XVII sec. In quegli anni si erano verificati eventi terribili per la città, catastrofi: rivolte popolari, carestie, terremoti, eruzioni del Vesuvio, e epidemie.
Basta pensare che su un popolazione di 400.000 anime, morirono in quegli anni più della metà. Poichè, come diceva Totò, conoscitore di questo rione, la morte è una livella, e tutti sono uguali, e non c’era posto per tutti nei cimiteri, né per nobili e ricchi nelle chiese, tutti i cadaveri furono depositati, senza lacuna differenza, nelle cave extra moenia, compresa quella delle Fontanelle.
Non mancarono però le inondazioni della lava dei vergini, che allagarono la cava, tutti gli scheletri furono scaraventati fuori, e fu difficile ricomporli.
Alla metà del XVIII sec, 1765, il cimitero fu destinato alla sepoltura delle salme” della bassa popolazione”.
Negli anni ’70 del XX sec. fu chiuso per essere sistemato ma soprattutto perché era diventato un esagerato luogo di culto e di leggende e miracoli.
La gente pregava per le anime abbandonate, considerandole un ponte un mezzo di comunicazione tra vivi e morti, tra la terra e l’aldilà.
Un teschio qualsiasi veniva adottato, gli si dava un nome, una storia e un ruolo, e con lui si parlava e ci si raccomandava per una grazia e un miracolo, offrendo doni e accendendo lumini.
E’ su questa “adozione” che si innesta una delle più conosciute leggende come quella del capitano.
In un tempo imprecisato,una giovane donna era diventata molto devota a un teschio che si diceva fosse di un ufficiale, andava a visitarlo,lo pregava di accontentarla e di concedere grazie.
Il fidanzato della giovane aveva cominciato ad avere dubbi sull’onestà della giovane e si era ingelosito, così un bel giorno l’aveva seguita, armato di un bastone. Entrato nel cimitero e preso dalla rabbia aveva colpito il teschio infilandogli il bastone in un occhio e per deriderlo lo aveva invitato al prossimo loro matrimonio.
Qualche tempo dopo, ormai l’episodio era stato dimenticato, nel giorno delle nozze, apparve un invitato in divisa militare e nessuno lo conosceva. Lo sposo allora gli aveva chiesto chi era e il soldato gli rispose che era stato invitato proprio da lui. Così si spogliò e si mostrò per quel che era , uno scheletro. C’è un’altra versione della storia, più violenta, in cui gli sposi muoiono ammazzati dal capitano.
Questo teschio è particolare, è chiuso all’interno di una teca, ed è sempre lucido al contrario degli altri coperti di polvere. Sembra sia solo una questione di umidità, ma i fedeli pensano al sudore delle anime del Purgatorio.
Qualcuno si allontana prima dalle Fontanelle, sembra che si respiri o si senta una particolare e strana energia, proveniente dalle “anime”.
Anche qui, i “solerti” custodi ci hanno vietato di fotografare, ed è perciò impossibile una decente documentazione fotografica.













Per saperne di più:

Cesare de Seta. NAPOLI, Ed. Laterza
Bartolomeo Capasso: Napoli greco-romana, Ed. Berisio
Gennaro Aspreno Galante: Le chiese di Napoli, Ed. Solemar
Aurelio de Rose: I palazzi di Napoli, Ed.Newton & Compton
Massimo Rosi: Napoli entro e fuori le mura, Ed. Newton & Compton
Antonio de Curtis,Totò: A livella,poesie napoletane, Ed.Fiorentino