sabato 18 giugno 2011

Cales







Sulla via Casilina, che da Capua porta a Cassino, si incontra da un lato la cittadina di Calvi Risorta, un centro agricolo industriale di prodotti alimentari e, poco più avanti, Calvi vecchia.
Si tratta di un antichissimo centro chiamato, all’epoca romana, CALES; un cartello sbilenco appoggiato su un palo della luce, indica la città vecchia e l’area archeologica..
Come tutte le città antiche, anche Cales ha la sua leggenda di fondazione: fu così chiamata da Calai, che, secondo la mitologia greca, era figlio di una ninfa del luogo, Orizia, e di Borea, uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti., quelli che insieme a Ercole, Giasone e altri, andarono alla ricerca del vello d’oro.
Nell’ Eneide (VII, 725/729), Virgilio, elencandogli alleati di Turno, il capo dei Rutuli, contro Enea, cita alcuni popoli e città della zona: … mille rapit populos, vertunt felicia Baccho Massica….” e . continuando in italiano,”: … quelli che i padri Aurunci mandarono dagli alti colli e, vicino, le piane Sidicine e quelli che lasciano CALES e i limitrofi del guadabile fiume Volturno……”.
Una visione anche questa leggendaria, poeticamente valida, ma anacronistica e poco storica.
Storicamente parlando, la zona era abitata dall’antico popolo italico degli Aurunci.
Questi erano una popolazione indigena stanziata, da quanto si sa, nel basso Lazio dopo il 1000 a.c., tra le pendici delle montagne sannitiche e il Garigliano e il Volturno, a nord di Capua e a sud di Teano.
I maggiori centri di questo popolo erano Priverno, Terracina, Sinuessa, oggi Sessa Aurunca, e appunto, Cales.
Nel 335 fu ovviamente occupata dai Romani che si stavano dedicando alla conquista delle città della Campania – di lì a poco sarebbe toccato a Neapolis -, e fu trasformata in una colonia. Nel 209, insieme ad altre colonie e città della zona, come Capua, rifiutò aiuti a Roma contro Annibale; per questo motivo, qualche anno dopo, appena cessato il pericolo cartaginese, Roma si vendicò imponendo gravosi tributi.
La città di Cales era famosa per il vino, celebrato, dal poeta Orazio - …nunc est bibendum… -, ma anche da Plinio, Giovenale; Strabone la chiamò “urbs egregia”, mentre Cicerone ne parlava come” civitas magna”.
A Cales inoltre si era sviluppata una industria per la fabbricazione di strumenti agricoli e, soprattutto, la produzione di ceramica artistica : i vasi caleni erano coperti di vernice lucida e nera, decorati con motivi ornamentali e figurati, imitanti quelli di bronzo e d’argento. La tecnica, lo stile e la forma erano di ispirazione ellenistica.
La storia della città fu poi quella di Roma, fino alla caduta dell’impero. Cales fu sede vescovile dal V secolo d.c. Nel 879 fu distrutta da una incursione di pirati saraceni.
La sua storia medievale si confuse con quella delle città vicine più importanti, tra longobardi di Benevento e normanni del ducato di Capua, e dal 1134, entrò a far parte del regno del Sud, fondato da Ruggero II e cosi resterà fino al 1861, anno dell’unità d’Italia.
In quell’anno e anche dopo, anche per la vicinanza al confine con lo stato pontificio, che consentiva un facile passaggio di resti dell’esercito borbonico sconfitto, tutta la zona fu investita prima dalla guerra tra borbonici e piemontesi con la battaglia del Volturno, poi dal lungo assedio di Gaeta e quello alla fortezza di Capua, e poi da lungo periodo della guerriglia anti italiana e del brigantaggio.
Ma ormai Calvi vecchia era stata abbandonata, solo rovine e macerie, poco più avanti fu riedificata la Calvi di oggi, risorta.
E cosa resta oggi di quella antica città? Stando ai cartelli turistici, c’è l’ area archeologica, con l’edificio termale e l’anfiteatro, ci sono le mura difensive preromane, il castello aragonese, l’edificio della cosiddetta dogana borbonica, la cattedrale.
Teoricamente si dovrebbero ritrovare avanzi di un anfiteatro e i ruderi di un edificio termale e delle vere e proprie terme del I° sec a.c.. Più avanti dovevano esserci resti di monumenti sepolcrali romani e di una chiesa del V secolo. Sarebbe prevista la creazione di un vero e proprio parco archeologico con al centro il castello aragonese di Calvi risorta.
Tutto questo si raggiungerebbe attraverso una stradina in discesa che secondo gli studiosi della zona, segue il tracciato dell’antico cardo maximus.
In realtà, quando mi sono addentrato in questa strada, tutto mi sembrava tranne che zona archeologica. Una strada fangosa e buia, coperta da folta vegetazione,- una giungla -, alberi e foglie incolte e non curate, nessuno per strada, se pure c’erano resti archeologici, dovevano essere coperti e nascosti dalla vegetazione, impossibile vedere i resti del teatro.
Tornato indietro, attraversando la strada statale si incontrano resti del castello cosiddetto angioino/ aragonese che viene fatto risalire al sec.XI, la cattedrale romanica del sc.XI, andando avanti le mura difensive di età preromana del IV sec.a.c. e la dogana borbonica del sec.XVIII e in lontananza vediamo il seminario diocesano risalente al sec.XVIII..
Tranne quest’ultimo, tutto appare in uno stato di semi abbandono, tra sentieri sbriciolati e erbacce,
c’è per fortuna una tabella con qualche disegnino e un tentativo di spiegazioni. Ovviamente, non c’è nessuno a cui chiedere informazioni.
Il castello, o meglio, quel che resta, con quattro torri cilindriche tipiche del periodo aragonese, risale al XIV secolo, cioè al periodo tardo angioino; impossibile anche avvicinarsi e tantomeno visitarlo, il portone di ingresso è sbarrato. Secondo gli storici, fu costruito su un preesistente fortilizio di età longobarda; la sua funzione è stata quella di presidio militare di confine,svolta fino a centocinquanta anni fa, alla fine del regno del sud.
Fino al 1861, infatti, lungo la linea della strada per gli Abruzzi, oggi Casilina, tra Arce e Ceprano( oggi in provincia di Frosinone, nel Lazio), correva il confine tra il regno borbonico e lo Stato pontificio.
E proprio a Calvi c’è un piccolo edificio a pianta quadrata, apparentemente restaurato e imbiancato, denominato “dogana borbonica”, che sarebbe stata appunto la dogana di confine, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo.
Per non parlare della cosiddetta grotta dei Santi, che un cartello indica mostrando un dipinto dedicato a S.Barbara. Ma non c’è nessuno a cui chiedere di cosa si tratta e dove si trova e come si arriva. Da quanto si legge in questa grotta dovrebbero esserci degli affreschi votivi. del X e XI sec.
A questo punto viene solo voglia di andarsene. Nulla di nuovo, anche Cales rientra perfettamente nell’attuale quadro di macerie archeologiche, culturali, turistiche e finanziarie di questo paese,.un classico esempio di degrado, di come cultura e storia possono essere nascoste e distrutte.
La Campania, poi, come leggiamo in “Vandali”, di G,A.Stella e S.Rizzo, è “al quintultimo posto per visitatori ai siti antichi, in rapporto al numero degli abitanti, nonostante l’antica Capua, nonostante Velia e Paestum, nonostante Ercolano,Oplontis , Pompei e una miriade di altri siti”, tra i quali posso facilmente inserire l’antica Cales.
Il problema - dicono quegli autori – non sono i siti, che in Italia non mancano, poiché dove scavi trovi reperti di ogni genere, ma la loro tutela. In questo settore” c’è da piangere”.
E il bello, anzi il brutto, è che a nulla serve neanche l’idea che, se ben conservate, queste aree producono ricchezza.

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martedì 7 giugno 2011

DAP





D.A.P.


Il DAP, acronimo di Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, incardinato nel Ministero della Giustizia (una volta c’era anche la Grazia), è nato alla fine del 1990, con la legge n.395 del 15 dicembre.
La legge costituiva il punto di arrivo delle molte proposte politiche e sindacali per la riforma del personale di custodia operante nelle carceri, ed infatti essa è intitolata e ricordata solo per la istituzione del “Corpo della polizia penitenziaria”. Generalmente si tace, o perché non interessa o perché è meglio star zitti, su alcuni articoli dal 30 al 40, che non solo rivoluzionavano l’Amministrazione centrale e periferica, creando il DAP e i Provveditorati regionali, ma aumentando considerevolmente il numero dei dirigenti e dando grossi vantaggi economici e giuridici a tutto il personale direttivo, parificato ai funzionari di P.S. In verità già esisteva una disposizione analoga del 1987 e concedeva al personale direttivo, un migliore trattamento economico allo scadere dei 15 e dei 25 di servizio.
Contemporaneamente alla nascita del DAP, cessava di esistere la Direzione Generale degli Istituti di prevenzione e di pena.
Prima di proseguire, un pò di storia, partendo dall’ unità d’Italia, visto che se ne celebrano i 150 anni.
Tralasciandola pena di morte, il sistema carcerario del nuovo regno non era mutato molto da quello degli stati preunitari: oltre alle carceri ordinarie e le case di pena dove si scontavano le pene della reclusione e dell’ergastolo, c’erano anche i cosiddetti “bagni penali” , cioè quei stabilimenti, sia di terra sia sulle isole, dove si doveva scontare la pena dei lavori forzati. L’amministrazione e la gestione di questi stabilimenti era affidata al Ministero della Marina ( risalendo questa pena alla antichissima “condanna al remo” da scontarsi sulle galee o galere, antiche navi a remi,dalle quali derivano poi i termini ad es. di galera e galeotti e altro...). Tutto il sistema sociale non pensava a possibilità di riabilitazione e di reinserimento sociale.
Dal 1861, al momento dell’unità d’Italia, come avvenne in tutti i settori economici, sociali e amministrativi, anche nel campo penale e penitenziario fu estesa, negli stati annessi al regno sardo, la legislazione piemontese, con un “Regolamento generale delle case di pena del Regno”, del 1862.
E’ nel 1866, l’anno della cosiddetta III terza guerra d’indipendenza, della sconfitta di Custoza e di Lissa e dell’annessione del Veneto, che tutto l’apparato penitenziario fu trasferito al Ministero dell’Interno e nacque la “Direzione generale delle carceri”.
Alla Direzione generale vennero addetti prefetti o comunque funzionari delle Prefetture, che in periferia curavano la parte amministrativa, e il direttore del carcere aveva il grado di sotto/prefetto onorario.
Nel 1891 si arrivò a una prima sistemazione della materia, con la riforma Zanardelli, sia del codice penale sia del regolamento penitenziario, con l’abolizione dei bagni penali.
La Direzione generale delle carceri fece parte del Ministero degli Interni fino al 1922.
Dal 1923, il regime fascista cambiò tutto: la Direzione generale delle carceri, secondo un principio di giurisdizionalizzazione della pena, per cui chi irrogava la pena doveva anche gestirne e controllarne l’esecuzione, passò al Ministero della Giustizia, tutte le attribuzioni amministrative di competenza delle Prefetture, furono trasferite alle segreterie giudiziarie delle Procure del Re, che diventarono così organi amministrativi periferici del ministero, tutte le carceri prive di direzione autonoma potevano essere dirette dal procuratore del re o dal pretore per le carceri mandamentali. Dietro questa manovra si nascondeva sicuramente qualcosa altro, poiché, per attuare quel principio, sarebbe stato sufficiente la magistratura di sorveglianza, così come avviene oggi. Naturalmente bisognava sostituire i dirigenti con magistrati.
Questo avvenne nel 1927, il personale direttivo che ancora gestiva la Direzione generale, fu sottoposto gerarchicamente a magistrati distaccati presso gli uffici centrali per assumerne la direzione.(che è rimasta fino al 1990 ed è tuttora in vigore per molti uffici del Dipartimento, ivi compresa la figura del Capo che è sempre un magistrato).
Nel 1931 fu varato un regolamento carcerario, che indicava anche la figura e i poteri del giudice di sorveglianza. In quello stesso regolamento, come parte accessoria e secondaria, solo nell’ultima parte, dall’art.293 al 322, si accennava all’ordinamento del personale e alle sue attribuzioni.
Nel 1940 con R.D. n. 2041 del 30 luglio, fu emanato un regolamento per il personale – l’Italia è già in guerra -: l’art 79 sanzionava definitivamente il processo di dequalificazione della Direzione generale nelle sedi periferiche, con la subordinazione “gerarchica” del direttore penitenziario al procuratore del re.
Con questa organizzazione, tutto il sistema penitenziario, dalla Direzione Generale al direttore periferico e al restante personale, pur avendone lasciato inalterate tutte le attività e responsabilità amministrative e quelle di sicurezza, era stato blindato e controllato dall ‘ordine giudiziario.
Non fu una bella mossa! I magistrati distaccati presso il Ministero, generalmente provenienti, chissà perché, dalle Procure, oltre ai propri collaboratori, cancellieri, segretari e altri, portarono una completa, abissale ignoranza amministrativa e di gestione del personale e delle risorse economiche, e una mentalità inquisitoria con cui hanno permeato tutta l ‘Amministrazione e che, malgrado il ricambio e il tempo trascorso, dura ancora oggi.
Caduto il fascismo e cessata la guerra, già nel 1947 si iniziò a pensare alla riforma penitenziaria, mentre due anni prima era stato militarizzato il corpo degli agenti di custodia; nel 1948 veniva promulgata la Costituzione repubblicana, che stabiliva la funzione rieducativa della pena, ma nulla sulla Direzione generale e sul personale.
Si cominciò a parlare di decentramento in tutta l’amministrazione statale, e nel 1955, con D.P.R. 28/6/ n. 1538, venivano istituiti gli ispettorati distrettuali, (gli antenati degli odierni provveditorati): ma, dove venivano istituiti ?... “ presso ogni Procura generale di corte di appello, e inoltre, l’ispettore doveva esercitare le funzioni di vigilanza e controllo, ma “ …sotto la vigilanza del competente procuratore generale “, il quale inoltre, o direttamente o su richiesta del Ministero, poteva intervenire direttamente per la trattazione di “ casi di particolare importanza “ (art. 9).
Ciò significava chiaramente che i dirigenti non erano considerati all’altezza di istruire e risolvere casi di particolare importanza, e la assoluta mancanza di fiducia della politica e della Direzione generale nei confronti dei propri funzionari.
Per non parlare del direttore del carcere che, – classico vaso di coccio tra vasi di ferro di manzoniana memoria – era subordinato gerarchicamente :1°) al procuratore della repubblica, per cui a lui doveva riferire su ogni affare, e da lui dipendeva per le classifiche annuali e addirittura per la autentica della firma da depositare presso la tesoreria della banca d’Italia, per tutte le attività contabili; 2°) all’ispettore distrettuale ,e doveva riferire anche a lui , come organo superiore e di controllo, ma questi, a sua volta, era subordinato e controllato dal procuratore generale e da lui dipendeva; 3°) alla Direzione generale presso il Ministero,alla quale pure doveva riferire..
E non dimentichiamo il magistrato di sorveglianza, che pur non essendo un superiore gerarchico, aveva e ha tra i compiti assegnatigli anche quello di vigilare sulla esecuzione delle pene e ogni cosa accade in carcere e poteva riferire direttamente al collega della Direzione generale. Insomma, un bell’esempio di funzionalità e di efficienza e di decentramento amministrativo.
Anche il DPR n. 748 del 1972 del 30 giugno , sulla disciplina delle funzioni dirigenziali non mutò nulla,
confermando il distacco di magistrati presso gli uffici centrali della Direzione Generale , escludendo l’accesso alle più alte qualifiche dirigenziali per il personale direttivo penitenziario.
Ovviamente tutto questo conveniva ai magistrati, per i quali erano aumentati gli incarichi direttivi, con relative carriere e stipendi.
Poiché l’argomento è lungo e complesso, termino qui la prima parte di questo racconto e ricomincerò più avanti dalla riforma penitenziaria del 1975.

FINE PRIMA PARTE