giovedì 20 ottobre 2011

Sofia e Francesco

La mattina del 14 febbraio 1861, una piccola nave, una corvetta battente bandiera francese con a fianco un vessillo bianco con uno stemma dorato al centro, navigava lentamente nella foschia del mar Tirreno, diretta a Terracina. Non c’era vento, l’aria era fredda, umida e immobile, stagnante, il mare calmo. A bordo, non era una giornata come le altre: comandante, ufficiali e marinai avevano indossato le uniformi di gala, ma non c’era nessuna festa. La” Mouette “, - il Gabbiano, questo il nome della nave -, sarebbe passata alla storia per gli ospiti che conduceva: Francesco II di Borbone, re – ultimo - delle due Sicilie, e la moglie Maria Sofia Wittelsbach di Baviera.

Foto del 1867

Essi avevano da poco lasciato la fortezza di Gaeta, dove avevano resistito, per tre mesi, all’assedio da terra e da mare, delle truppe piemontesi. Entrambi giovanissimi, lui 25 lei 21 anni, il re indossava una semplice uniforme blu, priva di ogni decorazione, Maria Sofia portava un semplice abito scuro e un cappellino con una piuma verde. Francesco e Sofia erano sul ponte, in silenzio guardavano verso quella terra, la propria terra, che stavano abbandonando.

Era la fine di uno Stato, dello Stato delle due Sicilie, il regno secolare fondato nel 1130 da Ruggero II, il normanno, il più grande territorio della penisola italiana. Francesco aveva detto a tutti che sarebbe tornato presto, ma non ci credeva, era solo apparenza.

(Francesco II di Borbone, fotografia del 1860)

Ripensava a quanto era successo, con Garibaldi, dalla Sicilia fino a Napoli il 7 settembre 1860, con il cugino Vittorio Emanuele, che non gli aveva mai dichiarato guerra,e tradimenti, corruzione, incapacità. Il “caro” cugino si era già preso, senza alcuna dichiarazione di guerra, la Toscana, con zio Leopoldo Lorena, che se ne era scappato senza sparare un colpo, poi Parma e Piacenza con Maria Luisa Borbone e il figlio piccolo di pochi anni, e Francesco di Modena, e l’Emilia-Romagna e le Marche.. Eh, ma qui aveva dovuto aspettare e combattere. Di questo Francesco era soddisfatto. Ma come era stato possibile che le sue truppe, quelle truppe, quei soldati che si erano battuti bene sul Volturno e poi a Gaeta, non erano riusciti a buttare a mare una banda di disperati in camicia rossa? E tutti quegli altri che non aveva potuto accogliere nella fortezza, e che aveva mandato oltre i confini dello stato pontificio, e che alimentavano la resistenza, e che ancora resistevano nelle fortezze di Messina e Civitella del Tronto. Si sentiva tranquillo, come liberato da un peso, gli dispiaceva più per Sofia che per lui stesso.

Sofia, la moglie, a Gaeta era diventata una eroina, era stata vicina a lui, e a tutti i soldati che l’avevano apprezzata.

Ma quanti pensieri si affollavano nella mente: la sua vita, la madre che non aveva conosciuto, Cristina di Savoia, il padre Ferdinando,quello si che era”nu’ rre”, avrebbe potuto prendersi tutta l’Italia se solo avesse voluto. E il palazzo di Portici, dove aveva trascorso l’adolescenza e i suoi precettori, e poi Sofia, bellissima quando l’aveva vista la prima volta a Brindisi, e poi gli ultimi fatti…. Avrebbe potuto restare a Napoli? Avrebbe dovuto far sparare sulla città? Traditori e incapaci quei generali ai quali si era affidato: Nunziante un traditore, Lanza un incapace, che aveva ceduto Palermo, e Landi, a Calatafimi, dove stava vincendo e si era ritirato, e anche suo zio Leopoldo, il conte di Siracusa che faceva il liberale, e i capitani della flotta che si erano consegnati ai piemontesi? E Filangieri, troppo vecchio per intervenire,….e tutti gli altri dalle Calabrie agli Abruzzi, qualcuno era stato anche ammazzato dalle truppe arrabbiate. E la Costituzione, data ormai troppo tardi. E quel fetente di Liborio Romano, che, come gli avevano riferito, aveva arruolato i camorristi e guappi nella polizia, per mantenere l’ordine pubblico in città. Se lo ricordava quel giorno del 6 settembre del ’60, quando prima di partire da Napoli, tutti i ministri andarono a salutarlo e a don Liborio, con quella sua aria tronfia e arrogante, aveva detto” don Libò, guardat’ o cuollo”, cioè bada alla tua testa, che se torno….. e ricordava il ministro Michele Giacchi al quale aveva detto:” voi sognate l’Itala e Vittorio Emanuele; ma non vi resteranno neanch’ ll’uocchie pe’ chiagnere” - purtroppo sarete infelici -.

(Litografia,Palazzo Doria d’Angri,Napoli 1860, ospitò Garibaldi appena giunto a Napoli)

Francesco in quel momento non poteva saperlo, ma mai previsione fu più azzeccata.

Poi aveva trovato a Ritucci,” nu brav’ommo”, fedele ai Borbone, un gentiluomo all’antica, al contrario di quel nano di Cialdini, quel piemontese arrogante, e quel vigliacco cialtrone di Persano, l’ammiraglio. Forse, in tutto questo schifo, era meglio Garibaldi, almeno era onesto ed era stato pure licenziato dal Savoia. Bravo Ritucci, mai avrebbe tradito e si era comportato bene sia al Volturno sia a Gaeta. E Beneventano del Bosco, irruento, audace, forse troppo, e fedele, e tutta la truppa, ripulita da traditori, corrotti, incapaci e vigliacchi.. In effetti aveva sbagliato, doveva “montare a cavallo”, come gli suggerivano la moglie e i fratelli e fermare l’avanzata garibaldina, prima, forse nella piana a sud di Salerno e non scappare dalla capitale. Sarebbe cambiata qualcosa? Chissà! Quel Napoleone, un doppiogiochista, l’Inghilterra non ne parliamo, mai fidarsi di un inglese, ce l’avevano già con papà, per quegli affari che volevano combinare in Sicilia, e i siciliani fissati con l’autonomia da sempre, e mi dispiace di mio cognato Francesco Giuseppe, che ha solo minacciato, ma non ha mosso un dito. Intanto, c’erano già rivolte in tutto il sud, si erano accorti che i fratelli del nord, i liberali, non erano poi tanto fratelli e neanche tanto liberali, a cominciare da quello che era successo a Bronte.

E Sofia? Una eroina per i soldati, sarà ricordata sicuramente.

Ridotti a vivere sotto i bombardamenti in una casamatta con tre stanzette condivise con altri,,vi restarono per tutta la durata dell’assedio. Lì, pensava Francesco, aveva vissuto i giorni più intimi e più intensi della sua unione con Sofia. Chi sa se qualcuno sta leggendo quel messaggio che aveva firmato prima di partire, diretto ai soldati:

“La fortuna della guerra ci separa:Dopo cinque mesi nei quali abbiamo combattuto insieme per l’indipendenza della Patria, dividendo gli stessi pericoli, soffrendo le stesse privazioni, è giunto per me il momento di mettere un termine ai vostri eroici sacrifici……. Grazie a voi è salvo l’onore dell’Armata delle due Sicilie; grazie a voi può alzare la testa con orgoglio il vostro sovrano…..” Concludeva dicendo: ” Non vi dico addio, ma arrivederci. Conservatemi intatta la vostra lealtà, come vi conserverà eternamente la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re Francesco”. Belle parole, ma, ormai quel che è fatto e fatto, chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato, il regno è finito.

“ Francois, nous sommes arriveè - gli stava dicendo Sofia,-” comment te porte-tu, Francois? Ca va?”, si preoccupò la regina notando l’intenso pallore del marito. “ Maestà, disse poi il marchese Pietro Ulloa -, simm’ arrivate”. “ sto’ bbuono, Marì, jamme”, rispose il Re. Erano a Terracina, territorio dello Stato pontificio e ospiti del Papa Pio IX. Prima di scendere dalla nave, l’equipaggio e il comandante resero gli onori militari e il re, da persona civile quale era, ringraziò il comandante per la tranquilla navigazione e per le cortesie ricevute. Quindi,dando il braccio alla regina, sbarcò.”..La giornata era fredda e perciò il re portava sulla divisa un gran mantello bianco – così si espresse un testimone, il cronista francese Garnier -…sembrava addormentato e camminava come un sonnambulo, in un sogno. Invece la regina era “ ..irrequieta e curiosa”. Ad aspettarli sulla banchina, oltre al delegato del Papa e agli zuavi francesi che rendevano gli onori, essi videro una folla di soldati napoletani, di quelli che non avevano trovato posto a Gaeta, sbandati, e anche civili che urlavano: “Evviva ‘o RRe nuosto!, Vulimmo vedè ‘o Rre !”. Un breve saluto e partirono per Roma, dove arrivarono dopo le otto di sera e furono ricevuti, al Quirinale, dal cardinale Antonelli, Segretario di Stato. Iniziava così l’esilio; i sovrani e l’intera famiglia si installarono in quel palazzo, assumendo – secondo P.G. Jaeger – “ l’atteggiamento esteriore di chi ritiene di non poter restare assente dalla patria più di qualche mese”. Non sarebbero più tornati.

Nell’anno dei 150 anni dell’unità d’Italia, oltre alle normali esaltazioni e alla esagerata retorica dei festeggiamenti, sono stati pubblicati molti saggi e storie sui vinti del risorgimento. Non fa male, senza voler mettere in discussione l’ unità, e senza aver paura di essere tacciati per nostalgici o revisionisti, ricordare persone e fatti preunitari e riscoprire storia, identità e verità per troppo tempo nascoste. Francesco II di Borbone era diventato Re alla fine di maggio 1859, il suo trono era già traballante e isolato dal punto di vista internazionale. Nel Nord Italia c’era già la guerra con l’Austria – la 2° guerra di indipendenza -, il Piemonte si stava prendendo la Lombardia e poi le regioni dell’Italia centrale. C’era molto fermento anche in Sicilia, un re accorto e esperto con ministri decisi, avrebbe potuto e saputo come intervenire, Francesco no. A maggio 1860 l’avventura di Garibaldi aveva dato inizio allo sfacelo totale. Con la fine del regno delle due Sicilie, iniziava per l’Italia la questione meridionale, ma era già iniziata quella guerra, che fu definita superficialmente il brigantaggio meridionale,le rivolte di legittimisti contro l’occupazione militare del sud, represse con fucilazioni sommarie, e violenze d’ogni genere, da ogni parte combattente, una guerra senza quartiere, e soprattutto senza speranza,dei vinti contro i vincitori .

(La fortezza di Gaeta,dipinto di C.Bossoli,1861)

Tutti i soldati del disciolto esercito borbonico erano stati arrestati e imprigionati in lontane fortezze del Piemonte, veri e propri campi di concentramento, mentre gli sbandati e quelli liberi fomentavano e partecipavano alla rivolta che durò per anni. Cosa ci si poteva aspettare dal luogotenente, mandato a Napoli da Cavour, tal Luigi Carlo Farini, che già aveva dato pessima prova di se a Modena, che così scriveva al suo capo:” altro che Italia, questa è “Affrica!” I beduini a riscontro di questi” caffoni”, sono fior di virtù civile. Napoli è tutto, la provincia non ha popoli, mandre: qualche barone o di titolo o di gleba, le mena……, con questa materia, che cosa vuoi costruire?”. Con questo signore, era difficile pensare di unificare l’Italia e gli italiani. Stranamente un popolo conquistato e vinto, una “mandra”, è oggi più italiano e unitario di altri, e non si sogna neppure di pensare a una secessione, come invece fanno quei barbari, i caffoni di quel paese che non esiste, come ha recentemente ricordato il Presidente della repubblica, i nipoti di quelli che scesero in “Affrica”, proclamando di essere fratelli d’Italia. E, visto che erano fratelli e avevano anticipato tanti soldi per “liberarli”, svuotarono le ricche banche meridionali, le regge, i musei e anche le case private, rubando tutto perfino le posate. E questo era solo l’inizio.

Quello che era stato scritto a carico dei Borbone di Napoli – e riconosco che, qualche volta, a ragione -, descrivendoli come il male assoluto, da parte di liberali italiani e stranieri, non era niente rispetto alla propaganda negativa successiva.

Fu avviata una vera e propria “damnatio memoriae”, oggi diremmo una gigantesca macchina del fango, con l’obiettivo di cancellare i Borbone dalla memoria delle popolazioni meridionali. Il minimo era farli passare per oppressori stranieri, al contrario dell’” italianissimo” Savoia! Furono utilizzati tutti i mezzi disponibili, anche il ridicolo: “la messa in ridicolo di tutto quanto riguardava Francesco II – dice P.G.Jaeger, che non è un meridionalista né un filo-borbonico – e il suo regno, riuscì, sotto il profilo della propaganda, più efficace della denunzia che riguardava la”brutalità”di suo padre Ferdinando. E lo dimostra la circostanza secondo la quale ancora oggi, la figura di Franceschiello è ricordata con ironia e disprezzo”. Basti pensare alla caricatura di questo giovane re nello stesso diminutivo del nome, che non era assolutamente vero e comunque usato solo per affetto, dal momento che il vero soprannome in famiglia era “lasa”, poiché il suo piatto preferito erano le la lasagne. Basti pensare al modo di dire ” l’esercito di franceschiello”, per indicare con disprezzo soldati che non si battono, ma scappano e si sciolgono subito, quando basta vedere i risultati conseguiti dall’esercito italiano dopo il 1861. Il “generalissimo Cialdini, il duca di Gaeta, che oggi sarebbe ricercato e giudicato come criminale di guerra, si dette molto da fare nel napoletano, come luogotenente, dopo pochi mesi, contro gli insorti, fece quasi 9000 morti, 7000 prigionieri e 13000 deportati, come e peggio dei nazisti. Ma contro un esercito attrezzato come quello austriaco nel 1866, fu battuto a Custoza, facendo una pessima figura, e così anche quel super ammiraglio Persano, che perse la flotta a Lissa. Basti pensare al termine “borbonico”, per indicare retrogrado, lento, farraginoso a tutto ciò che non funziona nella pubblica amministrazione, quando in realtà la burocrazia imposta in tutto il paese unito fu quella piemontese, cioè dei conquistatori, come accade in tutte le guerre, anche odierne.

E con la regina fu ancora peggio, contro di lei fu avviata una incredibile campagna scandalistica; a Maria Sofia furono attribuite varie nefandezze ed amanti, arrivando anche a realizzare un osceno e pessimo fotomontaggio, peraltro subito scoperto e che non pubblico per rispetto. Nei confronti dei Borbone erano già da anni state messe in atto quelle che oggi chiamiamo strategie di comunicazione di massa, propaganda per “inventare” un nemico, lo “straniero”, anche se è vero quel che afferma Fabio Cusin, cioè che “ Granduca( di Toscana), Borbone e papalini fecero di tutto per rendersi più malvisti”.Nei libri scolastici i Borbone venivano dipinti come i classici mangiatori di bambini e i fatti del Volturno e di Gaeta trattati con due parole, mentre si calcava la mano sui briganti. Ancora oggi storici di nome, come Lucio Villari, trattano in quattro righe l’assedio di Gaeta e lo declassano “ alla storia personale dei sovrani napoletani e alla fedeltà e al sacrificio eroico di quanti restarono con loro”, come se non si trattasse, comunque, della storia d’Italia e di migliaia di morti, italiani di entrambe le parti combattenti.. La realtà, nascosta per anni, era stata ben diversa e solo da poco si è iniziato a squarciare il velo- e in quest’anno in occasione dei 150 anni dell’unità - non si può aver paura di una verità diversa da quella raccontata. Molte erano già state le voci che si erano levate a favore di una riabilitazione del giovane re, almeno per liberarlo dalla disonesta ma propagandata fama di una sua “imbecillità”. “mitezza di carattere – Giuseppe Campolieti in una completa biografia -, signorilità, bontà non significano ingenuità o dabbenaggine”.

Arrigo Petacco, nella “ Regina del sud” scrive:” se come vuole la migliore retorica, almeno un raggio di gloria deve illuminare il tramonto di una dinastia, Francesco II e Maria Sofia se lo guadagnarono sugli spalti di Gaeta. Perché se è vero che un re e una regina devono mostrarsi tali nei momenti decisivi, gli ultimi sovrani di Napoli si rivelarono in quella occasione degni di ammirazione e di rispetto. Oggi, alla luce della Storia, il loro comportamento a Gaeta acquista addirittura il significato di un presagio. Nessun raggio di gloria, infatti, illuminerà il pronipote del “re invasore” quando, ottantasei anni dopo, sarà anche lui costretto a prendere la via dell’esilio”. Si riferisce a Umberto II, cacciato dalla volontà popolare e al padre, a quel Vittorio Emanuele III che scappò di notte, abbandonando tutto e tutti al loro destino. E che dire, poi, degli attuali discendenti?

(Maria Sofia)

Di questo avrebbe gioito sicuramente Maria Sofia, che non si era mai arresa di fronte alla storia e che dopo la morte del marito continuò, e nessuno potè fermarla, una lunga battaglia contro gli odiati Savoia. Maria Sofia di Wittelsbach, sorella della più famosa Sissi, moglie di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, è stata descritta come” principessa bellissima e giovanissima, ardita, fantastica e impulsiva come suo padre e sua sorella Elisabetta, - secondo Raffaele de Cesare, storico pugliese, deputato liberale -, e vivace come la madre, non era la più adatta a entrare nella Corte napoletana, immagine di tristezza, di vecchiezza e di pregiudizio; né a divenire moglie di un principe piuttosto insipido,soggiogato dagli scrupoli religiosi, inesperto della vita, e il quale non aveva conosciuto mai donne, anzi le fuggiva, facendosi rosso nel viso quando non ne poteva evitare gli sguardi”. Come si usava, aveva sposato Francesco di Borbone, erede al trono, per procura, e imbarcatasi a Trieste, lo aveva incontrato per la prima volta a Brindisi, pallido, magro, alto e serio, e timidissimo; Sofia aveva portato una ventata di aria nuova e di allegria.

A Gaeta aveva mostrato di che stoffa era fatta, l’esuberanza e il coraggio la portavano dove il pericolo era maggiore, visitava le postazioni di artiglieria più esposte e avanzate, portando un sorriso e un incoraggiamento ai soldati. “ Se Francesco- scrive Antonio Ghrelli – avesse il temperamento di sua moglie, venderebbe più cara la pelle …”. Nel periodo romano era nata Maria Cristina, morta però dopo appena tre mesi.

L’esilio durò 33 anni. Francesco II di Borbone, che si faceva chiamare semplicemente “sig. Fabiani” o qualche volta” duca di Castro” morì, malato di diabete, il 27 dicembre 1894 ad Arco di Trento, ospite dell’arciduca Alberto d’Asburgo,aveva 58 anni ma sembrava un vecchio. Maria Sofia di Wittelsbach, a Monaco il 18 gennaio 1925, a 83 anni

Alla notizia della morte del re, sul “Mattino” di Napoli, Matilde Serao, dando la notizia e commentando l’esilio del re scrisse: .” galantuomo come uomo, gentiluomo come principe, ecco il ritratto di don Francesco di Borbone”.

Il mito dell’eroina di Gaeta era tale che ancora cinquantanni dopo i fatti, il poeta Ferdinando Russo la ricordava nel suo:” ‘o surdato ‘e Gaeta”.: “ E’ ‘a Riggina! Signò.. quant’era bella..! e’ che core teneva!...Steva sempe cu’ nuie….chella era na’ fata!...”

Pochi anni dopo anche D’Annunzio la ricordava come “ aquiletta bavara” ne “Le vergini delle rocce”, un romanzo ambientato nell’ex regno delle due Sicilie.

(S.Chiara, chiostro)

Solo dopo 123 anni, nel 1984, dopo più di sessantanni di trattative tra eredi e Stato italiano, come se lo stato avesse ancora paura di quei nomi, di quel “mito” di Gaeta, e di quel che aveva tenuto nascosto, i resti di Francesco II e quelli di Sofia furono finalmente restituiti a Napoli, nella loro città, per essere sepolti nella chiesa di S. Chiara, nel Pantheon dei Borbone, nell’ultima cappella a destra, accanto a quelli degli altri sovrani delle due Sicilie.

Per saperne di più:

Raffaele de Cesare. La fine di un regno, ed. Longanesi

Pier Giusto Jaeger: Francesco II di Borbone, l’ultimo re di Napoli, ed. Mondadori

Lucio Villari: Bella e perduta, l’Italia del Risorgimento, ed. Laterza

Giuseppe Campolieti: Re Franceschiello, l’ultimo sovrano delle due Sicilie, ed. Mondadori

Angelo del Boca: Italiani, brava gente? Ed.Neri Pozza, Vicenza

Arrigo Petacco: la Regina del Sud, ed. Mondadori

Gigi di Fiore: I vinti del Risorgimento, ed. Utet

: Controstoria dell’unità d’Italia, ed. BUR saggi

: Gli ultimi giorni di Gaeta, ed. Rizzoli

Pino Aprile: Terroni, ed. Piemme

Ferdinando Russo: Poesie napoletane, ed. Newton.

Fabio Cusin: Antistoria d’Italia, ed. Mondadori


martedì 4 ottobre 2011

Il Rione Sanità

Una calda e bella domenica di metà settembre ha fatto da sfondo ad una escursione, o forse meglio parlare di una incursione, nel rione Sanità di Napoli.
L’ Associazione “Visite guidate Neapolisitinera “ ,( vedi l’interessante sito), organizza visite su diversi itinerari, alla ricerca della storia, della cultura e dell’arte della città, così come, da dilettante, avevo narrato in “Itinerari”, già pubblicati su articoli on line di “arte ricerca.com”.
Ho approfittato del fatto di essere nella città, per parteciparvi, anche perché, pur essendo nato a pochi passi dal rione, mai c’ero stato.
Oggi il rione Sanità, conosciuto anche come Vergini e sulle carte come quartiere Stella, è più tristemente noto per fatti di sangue, delinquenza, camorra, e per i preti e le iniziative anticamorra. “Il sindaco del rione sanità” è una commedia di Eduardo del 1960, in cui si traccia la figura di don Antonio Barracane, un misto di vecchio camorrista, padrino e mammasantissima, che risolve i problemi nel suo rione, senza sparatorie, rispettato e riverito dai paesani, ma alla fine viene accoltellato da un uomo qualsiasi. Il rione è noto perchè vi era nato il principe della risata, Antonio de Curtis, Totò
L’iniziativa ha richiamato l’interesse sulla storia del quartiere, mi ha stupito la grande partecipazione della gente, almeno 50/60 persone, giovani e anche ragazzi, guidati dalla dott.sa Roberta Nicastro, storico dell’arte, e presidente della Associazione.
Sono meravigliato anche dal fatto che, in una bella giornata di settembre, queste persone non vanno al mare, non pensano al sole e all’abbronzatura, come accadrebbe nella città in cui vivo, dove l’esigenza primaria è “ andar al bagno a ciapàr sol”, ma sono interessati alla loro storia, al loro passato. E sono tutti napoletani, non vedo stranieri e non sento parlare altre lingue o dialetti, napoletani che vivono forse fuori, lo straniero forse sono io, che vengo da più lontano..
La passeggiata, iniziata davanti al Museo archeologico nazionale, si ferma prima davanti alla porta S.Gennaro, l’ingresso settentrionale della antica città. Di qui infatti, seguendo il corso della via Forìa, passavano le mura della vecchia città, che poco più avanti ripiegavano verso S. Giovanni a Carbonara, passando poi per Castel capuano e proseguivano oltre.
La posizione attuale della porta è quella del 1537, quando il vicerè don Pedro de Toledo allargò le mura, fu cosi chiamata perché portava alle catacombe di S.Gennaro, sulla collina di Capodimonte.
Il Santo è ricordato anche nell’affresco dipinto sulla porta. Risale al 1656 durante una gravissima pestilenza e fu dipinto da Mattia Preti, condannato dal Tribunale a affrescare tutte le porte della città, poiché il pittore calabrese aveva superato il cordone sanitario, e ucciso una guardia che voleva impedirglielo.
Per narrare, almeno superficialmente, la storia della zona bisogna risalire molto indietro nel tempo.
“ Dal sistema collinare del Vomero e di Capodimonte scendevano a valle corsi d’acqua a carattere torrentizio,lungo l’attuale via Pessina, via Cacciottoli,il Cavone, Salvator Rosa, S.Teresa al Museo, Via Stella e via Vergini. Questi corsi d’acqua – racconta Cesare de Seta – defluivano in due direzioni, il cui tracciato si può individuare nelle attuali via Foria e via Pessina”.
De Seta lo chiama Rubeolo, e altri Sebeto, fiume che isolava., e proteggeva, insieme alle mura , a nord, la nuova città.
Tutta l’area era boscosa e selvaggia: le acque, anche piovane, avevano creato veri e propri valloni, incidendo profondamente nel tufo, e depositando negli stessi valloni la cosiddetta ”lava dei vergini”, composta da acque, fango e detriti.

La zona fu destinata da subito al seppellimento dei morti e a cerimonie religiose, e fu chiamata Vergini e poi Sanità.
Vergini, sembra, da Eunostidi, adoratori di Eunostos, cioè un dio minore,di cui è inutile narrare il mito, ma era considerato un dio della temperanza e quindi della verginità, quindi sacerdoti vostati alla castità, che si recavano extra moenia , per adorarlo e fare funzioni religiose.
Siamo nel periodo greco della città, sono state istituite le fratrie – anche gli Eunostidi lo sono -, associazioni di carattere religioso e/o politico dell’antica Grecia, che operavano su un determinato territorio della città, in cui erano iscritte le famiglie di cittadini appartenenti a quel territorio.
Esse si occupavano anche dell’amministrazione del territorio di competenza e ne gestivano tutte le attività, il che può già far pensare a un antenato di qualche associazione odierna, non proprio lecita. Bartolomeo Capasso ( Napoli greco-romana, pag.91 ) individua anche il quartiere degli Eunostidi:
“ essendosi trovata fuori della porta S.Gennaro, nella via dei Vergini, la tomba di una famiglia ascritta alla fratria degli Eunostidi, è lecito supporre che questa fratria abbia avuto le sue case non che lungi dai propri sepolcri, e che perciò il suo quartiere corrisponda alle isole poste tra il teatro e il muro settentrionale della città”.
Sul nome di Sanità ci sono due teorie: la prima ha pensato alla salubrità del luogo, pieno di boschi, e sorgenti d’acqua e ville per riposo e svago, mentre altri si riferivano invece a presunti miracoli avvenuti perle preghiere rivolte ai morti di quei cimiteri.
In effetti l ‘ area, oltre ad essere utilizzata per l’estrazione del tufo, fu destinata nell’ordine, a necropoli pagana, a catacombe paleocristiane e, successivamente a cimitero cristiano.
Qualcuno si è spinto a sostenere che la poesia “ ‘a livella”, Totò l’abbia scritta proprio ambientandola nel cimitero della sua zona.
La nostra brava e simpatica guida ci racconta tutto in maniera chiara e semplice, meritando l’attenzione di tutti e nessuno, mi sembra, ha mostrato segni di noia.
Cosi fu per secoli: c’erano piccoli edifici religiosi-cimiteriali, come quello che oggi è sotto la chiesa di S.Maria alla Sanità.
In età angioina, con Napoli capitale del regno, ebbe inizio il contenimento dei corsi d’acqua provenienti dalle colline, con opere fognarie e idrauliche, e la zona perciò divenne più agibile.
Si delineò anche la strada che partiva dalla porta S.Gennaro e saliva verso l’ interno, e iniziò la formazione di un piccolo borgo intorno agli edifici religiosi esistenti.
Con il passare degli anni , piccole fattorie e case sorgevano all’esterno delle mura, oggi diremmo abusive, perchè c’erano espressi e ripetuti divieti di edificare fuori le mura.
Veri e propri borghi sorgevano dappertutto, sia nella parte occidentale della città sia nella parte orientale. Nella Sanità, cominciò una consistente urbanizzazione: giardini, orti , grandi proprietà fondiarie e palazzi. La strada, alla fine del XVII sec., era diventata, grazie anche ad interventi urbanistici, la principale via di comunicazione tra collina e città, attraversava la vallata e raggiungeva Porta S.Gennaro. Tutta la nobiltà, i vicerè e poi re Carlo e Ferdinando, per recarsi nelle loro riserve di caccia ,e nei casini di caccia, dovevano passare di là.
Lasciata via Foria, appena entrati nel Rione, siamo in un altro mondo. Mi sembra di aver oltrepassato una soglia, alle nostre spalle è domenica, i negozi sono chiusi, c’è poca gente in giro, davanti invece è tutto aperto, la strada è inondata da gente, da bancarelle che espongono merce di ogni genere, frutta, verdura, pesce, indumenti……
Attraversiamo abbastanza rapidamente la via dei Vergini, arrivando al palazzo detto dello Spagnolo.
Tutti i palazzi nobiliari d’epoca di Napoli sono in genere aperti, a Spaccanapoli, a S.Biagio dei Librai, e anche qui; essi mostrano al passante cortili più o meno grandi, dove una volta transitavano carrozze o cavalli, scalinate, piante e giardini incredibili, antiche reliquie di altri periodi.
Il palazzo dello “Spagnolo” non fa eccezione a questa regola
Esso sorge proprio sulla strada dei Vergini, che fu utilizzata fino a quando, nel 1810, non fu inaugurata la strada diretta e il ponte sulla Sanità,che consentiva un collegamento più rapido.
Perché dello”Spagnolo”? La costruzione risale al 1738 - da quattro anni regnava a Napoli Carlo di Borbone - , per conto del marchese Nicola Moscati di Poppano, che, malgrado la nobiltà, esercitava il mestiere di mercante di cavalli e buoi. Diventato immensamente ricco, anche grazie a un matrimonio ancor più ricco, volle farsi costruire una dimora degna di lui.
Si racconta che tutto andò bene finche visse don Nicola, ma alla sua morte, già il figlio iniziò a dilapidare il patrimonio.
Così, nel corso degli anni successivi, a seguito di una serie di vicissitudini anche politiche, gli eredi si ritrovarono nella impossibilità di mantenere il palazzo, i creditori si rivolsero al Tribunale e il palazzo fu diviso in varie parti. Nel 1813, una parte fu venduta a don Tomaso Atienza, detto lo Spagnolo, che peraltro era procuratore e agente di don Vincenzo Osorio di Madrid.
La costruzione del palazzo viene attribuita a Ferdinando Sanfelice, anche se sembra più certo che solo il frontale e il cortile interno siano opera del suo genio.
L’architetto Sanfelice, era nato a Napoli nel 1675 da una famiglia definita “patrizia” che abitava nel Rione. Pur non avendo goduto della stessa fama del più giovane Vanvitelli, egli è comunque considerato uno degli architetti più creativi del ‘700.
La sua opera era basata tutta sulla scenografia e su monumentali scaloni aperti, che danno l’impressione di una scena teatrale.
Ne abbiamo un bell’esempio in questo palazzo: nel cortile interno una scala monumentale a doppie rampe , con cinque aperture ad arco meglio dette fornici. Si resta stupefatti dalla soluzione architettonica e anche dal buon stato di conservazione, dalle scalinate e dai soffitti affrescati e lunette decorate in stucco.
Ferdinando Sanfelice però, sulla via Arena alla Sanità, poco più avanti dello Spagnolo, già nel 1725, decise di costruire un palazzo per se e la famiglia, con lo stesso stile architettonico.
Tutti i palazzi hanno alle spalle, in un secondo cortile, un ampio giardino, l’ho visto salendo per le rampe del palazzo Sanfelice, chiuso al pubblico.
Ora ci dirigiamo velocemente nella piazza della Sanità, proprio sotto al ponte che porta a Capodimonte, davanti alla grande chiesa barocca di S. Maria della Sanità, edificata nei primi anni del XVII sec., conosciuta più popolarmente come chiesa di “ S,Vincenzo”, “’o Munacone”, santo protettore dello stesso rione, al quale la stessa chiesa è dedicata.
A seguito di un violento nubifragio, nel 1569 vennero alla luce i resti della chiesa di S.Maria della sanità, sepolta molti secoli prima in analoghe circostanze, chiesa paleocristiana e scavando più sotto antiche catacombe intitolate a S.Gaudioso.
In questa occasione fu ritrovata quella che viene ancora oggi ritenuta la più antica immagine della Madonna, nel napoletano, che è oggi esposta nella antica chiesa cimiteriale.
Si ritenne perciò di dover costruire sopra una nuoca chiesa, l’incarico fu affidato al ”laico domenicano” – cosi lo definisce Gennaro Aspreno Galante - Giuseppe Donzelli, soprannominato Frà Nuvolo. Questi non distrusse l’antica chiesa cimiteriale, ma “con idea sorprendente e nuova vi collocò di sopra il maggior altare e d’innanzi il maestoso tempio di forma ellittica a cinque navi”.
Egli fece una cupola con mattonelle maiolicate e un bel campanile. All’interno troviamo molti dipinti di Luca Giordano. Ma quello che colpisce subito il visitatore è l’altare maggiore, sopraelevato rispetto ai fedeli, posto proprio sopra l’accesso alla antica chiesa e alle catacombe.
Per entrare qui, dobbiamo cambiare guida, sembra che faccia parte di una Associazione culturale “gradita al Vaticano”!
Mentre apprezziamo l’antica pavimentazione e il dipinto di S. Maria della Sanità, ci viene proibito di usare il flash, il che, considerato che siamo senza luce e sotto terra, equivale al divieto di fare fotografie.
Le catacombe di S. Gaudioso costituiscono il secondo cimitero paleocristiano di Napoli, per ampiezza e valore. Settimio Celio Gaudioso era vescovo nella provincia romana d’Africa. Fu scacciato nel 439 da Genserico, capo dei Vandali che avevano conquistato la regione. Egli si stabilì a Napoli dove morì introno al 452 e fu deposto in una tomba del cimitero della Sanità che da lui appunto, prese il nome. Nella stessa catacomba fu sepolto poco dopo anche Nostriano, vescovo della città.
Lungo le pareti delle catacombe si trovano cubicoli, qualcuno affrescato altri con mosaici. Sulle pareti appaiono solo teschi e una suddivisione tra uomini da un lato e donne dall’altro.
Le catacombe furono utilizzate anche nei periodi successivi dai frati domenicani; ci vengono mostrati gli “ scolatoi “, piccoli loculi con sedili bucati al centro, dove venivano sistemati i cadaveri e messi appunto a scolare.
La macabra operazione tendeva alla decomposizione della carne e alla eliminazione di liquidi e di gas dai cadaveri prima di seppellirne le ossa; una operazione analoga l’abbiamo trovata nel castello Aragonese di Ischia, nel monastero delle monache.( vedi “ Il castello aragonese “ su questo stesso blog o su arte ricerca.com, articoli on line).
A questa attività erano addetti alcuni operatori, che “aiutavano” i cadaveri a scolare, mediante punzecchiature e buchi praticati nella carne, e la raccolta poi dei liquidi: immaginiamo solo l’operazione e il puzzo che doveva esserci. Adesso si spiegano anche le imprecazioni napoletane: “ puozz’ sculà” o “ schiattamuorte’”.
L’escursione si conclude al cimitero delle Fontanelle, che come già spiegato danno il nome alla salita che vi ci conduce che non è altro, secondo gli studiosi , che il vecchio impluvio, e alla zona che secoli fa era piena di sorgenti d’acqua.
La strada per arrivarci è in salita, si restringe passando attraverso abitazioni private, panni stesi per strada, i cosiddetti bassi, abitazioni a livello stradale, e persone che guardano incuriosite questo corteo che incede ad andatura sostenuta, sembra si sia fatto un pò tardi.
Il cimitero delle Fontanelle è una grande cava tufacea, altissima e larga, e riaperta da poco al pubblico. All’ingresso un specie di baracchino provvisorio, munito però di antenna satellitare, fa da ufficio e un gruppo di 4/5 custodi chiacchierano per conto loro e disturbano anche le spiegazioni della nostra guida..
L’impatto, anche se ci si aspetta di vedere cose già viste per tv, è violento, macabro, …..
Migliaia di teschi ordinati e sistemati uno sull’altro in ordine quasi perfetto, alcuni oggetti probabilmente regali o ex.voto, donati per grazia ricevuti a testimonianza di credenze e superstizioni popolari.
L’origine di questo cimitero si fa risalire al periodo a cavallo tra XVI o XVII sec. In quegli anni si erano verificati eventi terribili per la città, catastrofi: rivolte popolari, carestie, terremoti, eruzioni del Vesuvio, e epidemie.
Basta pensare che su un popolazione di 400.000 anime, morirono in quegli anni più della metà. Poichè, come diceva Totò, conoscitore di questo rione, la morte è una livella, e tutti sono uguali, e non c’era posto per tutti nei cimiteri, né per nobili e ricchi nelle chiese, tutti i cadaveri furono depositati, senza lacuna differenza, nelle cave extra moenia, compresa quella delle Fontanelle.
Non mancarono però le inondazioni della lava dei vergini, che allagarono la cava, tutti gli scheletri furono scaraventati fuori, e fu difficile ricomporli.
Alla metà del XVIII sec, 1765, il cimitero fu destinato alla sepoltura delle salme” della bassa popolazione”.
Negli anni ’70 del XX sec. fu chiuso per essere sistemato ma soprattutto perché era diventato un esagerato luogo di culto e di leggende e miracoli.
La gente pregava per le anime abbandonate, considerandole un ponte un mezzo di comunicazione tra vivi e morti, tra la terra e l’aldilà.
Un teschio qualsiasi veniva adottato, gli si dava un nome, una storia e un ruolo, e con lui si parlava e ci si raccomandava per una grazia e un miracolo, offrendo doni e accendendo lumini.
E’ su questa “adozione” che si innesta una delle più conosciute leggende come quella del capitano.
In un tempo imprecisato,una giovane donna era diventata molto devota a un teschio che si diceva fosse di un ufficiale, andava a visitarlo,lo pregava di accontentarla e di concedere grazie.
Il fidanzato della giovane aveva cominciato ad avere dubbi sull’onestà della giovane e si era ingelosito, così un bel giorno l’aveva seguita, armato di un bastone. Entrato nel cimitero e preso dalla rabbia aveva colpito il teschio infilandogli il bastone in un occhio e per deriderlo lo aveva invitato al prossimo loro matrimonio.
Qualche tempo dopo, ormai l’episodio era stato dimenticato, nel giorno delle nozze, apparve un invitato in divisa militare e nessuno lo conosceva. Lo sposo allora gli aveva chiesto chi era e il soldato gli rispose che era stato invitato proprio da lui. Così si spogliò e si mostrò per quel che era , uno scheletro. C’è un’altra versione della storia, più violenta, in cui gli sposi muoiono ammazzati dal capitano.
Questo teschio è particolare, è chiuso all’interno di una teca, ed è sempre lucido al contrario degli altri coperti di polvere. Sembra sia solo una questione di umidità, ma i fedeli pensano al sudore delle anime del Purgatorio.
Qualcuno si allontana prima dalle Fontanelle, sembra che si respiri o si senta una particolare e strana energia, proveniente dalle “anime”.
Anche qui, i “solerti” custodi ci hanno vietato di fotografare, ed è perciò impossibile una decente documentazione fotografica.













Per saperne di più:

Cesare de Seta. NAPOLI, Ed. Laterza
Bartolomeo Capasso: Napoli greco-romana, Ed. Berisio
Gennaro Aspreno Galante: Le chiese di Napoli, Ed. Solemar
Aurelio de Rose: I palazzi di Napoli, Ed.Newton & Compton
Massimo Rosi: Napoli entro e fuori le mura, Ed. Newton & Compton
Antonio de Curtis,Totò: A livella,poesie napoletane, Ed.Fiorentino

lunedì 3 ottobre 2011

Quis custodiet custodes?

Nelle patrie galere non ci sono solo le persone costrette a starci per forza, ma anche quelle che ci vanno volontariamente.

Sono quelli che ci lavorano, direttori, educatori, impiegati amministrativi, medici e infermieri, ma anche volontari, e soprattutto i poliziotti penitenziari, quelli che una volta si chiamavano agenti di custodia, e che ancora oggi si offendono se qualcuno si ostina ancora ad apostrofarli come “secondini”.Sono circa quarantamila tra uomini e donne, nei vari gradi e, nella sostanza, costituiscono il nucleo più numeroso in ogni istituto, per cui bisogna sempre fare i conti con loro e con i loro rappresentanti sindacali. Tra di loro, come in altri settori, ci sono, oltre a quelli che lavorano con professionalità e motivazioni, ci sono anche assenteisti cronici e inguaribili, sfaticati e nullafacenti, corrotti, drogati, ladri, e comunque persone che starebbero meglio dall’altro lato delle sbarre.

In questi casi, per rispondere alla domanda del titolo, oltre alle denunzie e le condanne penali, c’è un regolamento di disciplina che prevede una serie di sanzioni che vanno da una semplice censura – un richiamo scritto – alla espulsione dal Corpo.

Prima di arrivare alla sanzione, però, c’è una fase istruttoria, in cui un funzionario istruttore, generalmente un direttore penitenziario, fa una indagine sui fatti che vengono contestati, raccoglie testimonianze e atti e documenti e quindi redige una relazione con un proprio parere e proposte, che viene inviata all’organo consiliare giudicante. Quest’ultimo è di due tipi, uno regionale, per alcune infrazioni, e un altro centrale, presso il Dipartimento, per le infrazioni e le sanzioni più gravi.

Trascrivo di seguito un esempio di relazione istruttoria da me compilata, anni fa, per il Consiglio centrale, a carico di un agente già recidivo e già condannato per altro.

Per far capire meglio a chi si avventura nella lettura di questo testo, chiarisco alcuni particolari:

I nomi di persone e di luoghi, le date, sono completamente inventati, per ovvi motivi di rispetto della privacy, il linguaggio è molto burocratico. Sono veri invece i fatti riportati.

Il Decreto Legislativo 449/92 prevede le infrazioni specifiche, le relative sanzioni e le procedure previste. Per quelli indicati nella relazione che segue, l’art.6 prevede la sanzione massima cioè la Destituzione, per i fatti previsti dalla Lettera A): atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale; B): atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento; D) dolosa violazione dei doveri, che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, alla Amministrazione penitenziaria, a enti pubblici e privati.

L’art.5 invece prevede la sospensione dal servizio, da uno a sei mesi e le relative conseguenze sullo stipendio e sulla carriera, e la lett. F) per uso non terapeutico, provato, di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Trasmessa la relazione, il funzionario istruttore, a meno che non voglia personalmente interessarsene, non viene a conoscenza degli esiti del procedimento.

Per cui, io non conosco i risultati di questo mio lavoro.

“””””””””

“ Al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria

Direzione generale del personale

Disciplina polizia penitenziaria

ROMA

OGGETTO : Procedimento disciplinare a carico dell ‘ agente di polizia penitenziaria Pack Sergio , in servizio presso la Casa di reclusione di Montebianco , per l ‘ infrazione di cui all’art. 6 , lett. A ), B) , D) e art . 5 , lett. F) del D.Lgs.449/92, disposto dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria , Direzione Generale del personale e della formazione , Disciplina Polizia Penitenziaria Ufficio IV , Sezione III , con nota n. 00/001000/00-2000 del 2 marzo 2000 .

In riferimento al procedimento disciplinare indicato in oggetto , rappresento quanto segue :

L’agente Pack Sergio è attualmente detenuto presso il Carcere militare di S. Giovanni , per arresto su ordinanza di custodia cautelare da parte della Procura della repubblica di Montebianco per il reato di cui all’art .73 del D.P.R. 309/90 ; dal 5 dicembre 1999 è sospeso dal servizio ai sensi di quanto previsto dall’art. 7 , co. 1° del D.Lgs. 449/1992 .

Presso detto istituto militare, gli è stata notificata la contestazione degli addebiti di questo funzionario istruttore , in data 8 marzo 2000;

A sua richiesta motivata , gli è stata concessa la proroga dei termini per la difesa ai sensi di quanto disposto dal’art. 12 , co.3 del D.Lgs 449/1992 .

All’ incolpato è stata consegnata copia della sentenza n. 432/7 del 30/9/99 emessa dal Tribunale di Montebianco, poiché lamentava, con lettera del 15/3/2000 di non poter esercitare il diritto alla difesa, non avendo possibilità, data la sua attuale condizione detentiva, di accesso agli atti del procedimento .

La stessa lettera è pervenuta due volte, sia il 17 marzo sia il 22 marzo 2000: oltre a quanto già accennato, l’incolpato lamenta di non poter esercitare “ tutte le facoltà “ comunicate con l’atto di contestazione, data la sua attuale posizione di custodia cautelare in carcere.

I fatti che hanno portato alla sentenza di condanna, da quanto risulta, hanno inizio nel 1995 , con l’offerta da parte dell’incolpato ad alcuni colleghi , presso la casa di reclusione di Montebianco, di un pezzetto di sostanza stupefacente del tipo hashish al prezzo di 5 EURO, .

Il 3 luglio 1995, l’agente ausiliario Dominici Mario, in servizio presso la già indicata casa di reclusione, fa presente all ‘ assistente Tofai Carlo e al sovrintendente Chicco Daniele, che il Pack, entrato nella camera della caserma, occupata anche dagli altri agenti ausiliari Zambon Luigi e Angeli Domenico, ha offerto in vendita per 5 euro, un pezzetto di una sostanza che affermava essere “ fumo “.

A seguito della trasmissione degli atti, da parte della Direzione della casa di reclusione di Montebianco, alla Autorità giudiziaria, e delle indagini effettuate, si perveniva al rinvio a giudizio da parte del G.U.P. il 5/1/1999.

Successivamente, il Tribunale di Montebianco, in composizione monocratica, ha riconosciuto il Pack colpevole del reato a lui ascritto - art. 73 , co. 1 e 4 e 5 del D.P.R.309/90 - condannandolo alla pena di 6 mesi di reclusione e Euro 200,00 di multa, oltre alle spese processuali e ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena.

L ‘ incolpato ha trasmesso, con la lettera del 1° aprile 2000, una memoria difensiva con la quale afferma che :

- i fatti per i quali è stato condannato non coinvolgono l ‘Amministrazione penitenziaria e non c’è stata alcuna condotta lesiva ai danni e contro l’istituto di appartenenza;

- l’Amministrazione Penitenziaria non si è costituita in giudizio per l’ipotetico danno causato all’immagine dell’istituzione;

- intende esercitare il proprio diritto alla difesa mediante audizione, ma che al momento non può in quanto in custodia cautelare.

Per tutti questi motivi, il Pack chiede l ‘archiviazione o una sospensione dei termini e di ogni altro provvedimento.

Allo scrivente sembra che il Pack si arrampica sugli specchi, con affermazioni surreali;

evidentemente, egli ritiene che per un appartenente a un Corpo di polizia, il vendere “ fumo”, peraltro in caserma e a colleghi, sia una condotta pienamente legittima e privata, che non coinvolge l ‘ Amministrazione di appartenenza.

La realtà è che il Pack non può fornire alcuna valida giustificazione, dal momento che i fatti sono accertati, e la sua attuale situazione di detenuto, accusato di fatti analoghi o più gravi , non fa altro che aggravare una posizione indifendibile .

Basta dare una occhiata al foglio matricolare. Arruolato a dicembre 1991, il Pack inizia il suo cursus disciplinare nel 1993, e lo inizia alla grande: deplorazione e pena pecuniaria di 5/30 per le infrazioni di cui all’art . 4 , lett. C) e art. 3 , lett. F) del D.Lgs . 449/1992 .

Salvo una censura, seguono altre sanzioni disciplinari, più o meno, dello stesso livello; c’è da meravigliarsi che sia stato classificato “ buono “.

Per quanto riguarda il fatto in esame, non deve ingannare la modestia dell’episodio, già peraltro presa in esame dal Tribunale con la concessione delle attenuanti generiche, poiché il Pack non sembra nuovo a condotte illecite e a frequentazioni di luoghi e persone poco consone per un appartenente a un Corpo di polizia .

La prognosi favorevole espressa dal Tribunale di Montebianco, circa una futura astensione dalla commissione di ulteriori condotte illecite è fallita , alla luce della attuale situazione del soggetto.

Personaggi del genere offendono non solo il prestigio di questa Amministrazione, ma danneggiano la dignità e l’onore di tutti quegli operatori che lavorano con correttezza e senso del dovere.

Pertanto, ritengo sussistenti tutte le infrazioni disciplinari contestate .

Rimetto l’intero carteggio raccolto al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria , Direzione Generale del personale e della formazione , Ufficio IV Disciplina , Sezione III , ai sensi di quanto previsto dall’art. 15 , co. 6 del DlLgs. 449/1992

13 / 4 / 2000

Il funzionario istruttore

Dott…………….