lunedì 29 agosto 2011

La Fondazione







L’alba del V° secolo a.C. vede il Mediterraneo occidentale diviso tra varie potenze: in Africa, Cartagine era una grande potenza marittima, in Sicilia si scontrava in una guerra continua con i Greci di Siracusa per i controllo del territorio e dei mari circostanti; nella penisola iberica e nella Francia meridionale c’erano basi e colonie fenicie, greche e cartaginesi, che si dividevano commerci e territori.

Secondo lo storico Erodoto,(libro I, 163), “furono i Focesi i primi Elleni che abbiano compiuto lunghe navigazioni e furono essi che aprirono la via per il golfo di Adria, il Tirreno, l’Iberia e Tartesso (mitica città situata oltre lo stretto di Gibilterra). Essi navigavano non su navi rotonde, ma su pentecontere”.

I Focesi provenivano da lontano, dalla Ionia, (Turchia). La navigazione non era facile, anzi era molto pericolosa sia per le rotte marine sconosciute e eventuali tempeste sia per incontri con pirati o comunque navi nemiche. Essi, come i Fenici e altri popoli, per i lunghi viaggi, utilizzavano non navi mercantili “ a scafo rotondo “, ma navi da guerra, le pentecontere, lunghe circa 38 metri, con 50 vogatori – 25 per parte più vele, con scafo piatto e rostro, utilizzabili anche per scopi mercantili e utili anche per difendersi da eventuali attacchi. Avevano coraggio, la navigazione era difficile, si faceva soprattutto di giorno e sottocosta.

In realtà, si raccontava già a quell’epoca che i primi viaggiatori erano fenici o comunque mediorientali; il Mediterraneo era già da secoli frequentato, sulle coste africane e quelle europee, da fenici o comunque mediorientali, Siriani,Egiziani, Cretesi e Micenei, guerrieri, avventurieri, mercanti e pirati trafficavano e fondavano bai commerciali e anche città, ma tutto era avvolto in storie ormai leggendarie.

In Italia, la potenza dominante erano gli Etruschi: essi disponevano di un forte esercito e di una flotta imponente che consentiva di spadroneggiare per terra e sul mare: padroni della Corsica e delle isole toscane, dall’Elba traevano la materia importante per l’epoca, il ferro, si erano spinti verso nord, sul Po, incrociandosi con i Celti, in Umbria, Marche e in Lazio, perfino a Roma con i re Tarquini, poi ancora più a sud con Capua e Pontecagnano, a Nocera e forse anche a Pompei.

A Roma, poco più che un villaggio, si era da poco instaurata la repubblica, mentre altri popoli indigeni, Piceni, Dauni, quelli del Massico, gli Aurunci, gli Osci, i bellicosi Sanniti si muovevano e si scontravano per la conquista di territori.

In Campania era Cuma, fondata agli inizi del 700 a.c. da Eubei e Pithecusani, alla fine del VI sec., la maggiore e più potente colonia greca in Italia, temuta e rispettata anche dagli Etruschi, che tentavano di toglierla di mezzo.

La città dominava tutto il golfo, detto appunto cumano( poi diventerà di Napoli) fino a Sorrento, le isole di Pithecusa (Ischia), Procida e forse anche Capri ; aveva già sbaragliato un grande esercito di Etruschi, Dauni e Celti alleatisi contro; a Cuma si era rifugiato, dopo la cacciata da Roma , l’ultimo re della città, Tarquinio detto il superbo.

Cuma era governata da una oligarchia composta da una classe media di cavalieri e mercanti, che però, proprio agli inizi del V° sec., fu tolta di mezzo da un colpo di stato di Aristodemo, l’ufficiale che aveva sbaragliato l’esercito dei nemici alleati, appoggiato dalle sue truppe.

Diventatone signore assoluto, Aristodemo governò la città per circa vent’anni, eliminando ogni possibile opposizione, molti scapparono in esilio nelle città vicine, soprattutto nella etrusca Capua, e cominciarono a tramargli contro.

Verso il 480 circa, un gruppo di congiurati, esuli o figli di esuli, appoggiati anche da Etruschi e altre città, riuscirono a rientrare a Cuma con uno stratagemma, uccisero Aristodemo e provarono a ricostituire il vecchio governo oligarchico.

Ma i tempi erano profondamente cambiati: la situazione economica e sociale era diversa da una volta, nuovi ceti produttivi e politici si erano affermati in quei vent’anni di regime, la città a livello internazionale stava perdendo terreno.

Di questa situazione ne approfittavano i popoli e le città vicine e dipendenti, soprattutto i soliti Etruschi che assolutamente volevano impadronirsi del golfo e delle fertili pianure campane. Dalla madre patria non ci si poteva aspettare alcun aiuto: Atene e Sparta, erano a terra dopo che avevano da poco respinto i Persiani sia , a Maratone, con Milziade, sia sul mare, a Salamina, con Temistocle, ad Atene cominciava ad affermarsi con Cimone una parvenza di democrazia, presto arriverà Pericle.

A chi rivolgersi, quindi? La risposta poteva essere una sola.

Al più vicino e ambizioso signore greco-siciliano, Ierone di Siracusa. Già padrone di mezza Sicilia e in perenne guerra con i Cartaginesi, padroni dell’altra metà dell’isola, Gerone colse a volo la richiesta di aiuto dei Cumani, per estendere i suoi domini nel medio- alto Tirreno a spese degli Etruschi.

Nel 474, questi, nelle acque di Pithecusa, subirono una sonora sconfitta navale, i Siracusani si installarono non solo sull’isola.e sui territori circostanti , ma anche in città, a protezione delle rotte e del golfo, attuando una vera e propria occupazione militare..

I congiurati, quelli che avevano eliminato Aristodemo e avevano provato a impadronirsi del potere, dovevano trovare altre strade: vivere in una città decadente che non li voleva, andare a vivere da esuli rimuginando sulla sconfitta e magari aspettando un’altra occasione, chiedere e cercare una nuova terra e creare una nuova città dove vivere.

Non erano pochi e non erano solo Cumani, ma anche Pitecusani, stanchi di vivere su un isola soggetta a terremoti, eruzioni, acque bollenti, Procidani e altri, erano in maggioranza giovani, uomini e donne, bambini, famiglie intere; forse un migliaio di persone, guidati dai giovani Cleomene e Policrito, e dal più anziano Aristone.

La decisione era difficile, i tre avevano manifestato le loro intenzioni allo stesso governo di Cuma, che li aveva incoraggiati ad andarsene, pur di liberarsene …..e in primo luogo li aveva indirizzati a Partenope, sempre comunque a immediato contatto o comunque all’interno della “chora”, il territorio sotto controllo cumano.

Avevano sentito parlare di Partenope: doveva essere una città situata poco più a sud, nel golfo, oltre le colline fumanti, oltre i campi di fuoco ,oltre l’Averno e il capo intitolato a Miseno e dopo il centro abitato di Dicearchia (Pozzuoli).La sua fondazione si perdeva nel tempo passato, forse ai tempi dei Micenei dispersi dopo Troia, forse da Enea o Ulisse, o anche dai Fenici, quell’antico popolo di mercanti e navigatori.

“Leggende, – diceva qualcuno –, la verità è, invece, che Partenope, che era il nome di una sirena il cui corpo era stato trovato su quelle spiagge, è stata opera di abitanti di Rodi, famosi non solo come navigatori, ma anche perchè devoti al culto delle Sirene”.

I Rodii – secondo questa teoria - approdarono su un isolotto (di Megaride, oggi castel dell’Ovo) e sulla vicina spiaggia, nella insenatura creata dalla foce di un fiume. Il villaggio sorse su un promontorio (Pizzofalcone) a picco sul mare, isolato anche dall’interno e difficilmente raggiungibile da una via di accesso interna, circondato da colline e valloni.

All’inizio era una base commerciale, ma dopo la conquista da parte di Cuma era diventata anche un grande porto militare. Dopo non ha avuto più storia, ha seguito le sorti di Cuma, era abitata anche da Osci e Sanniti.

Cleomene, Aristone e Policrito si incaricarono di andare a vedere quel che restava dell’abitato e se le storie che si raccontavano era vere.

Ma, come andarci? Per terra o per mare?

La presenza sul mare, nel golfo e sulle isole degli alleati Siracusani consigliavano quella strada; al contrario, per terra, la presenza di bande etrusche ancora in guerra, di banditi, e di boschi e di sentieri non facilmente percorribili, non facilitavano gli spostamenti, se non accompagnati da un forte contingente militare.

Il mare perciò, soprattutto in quella stagione, era la soluzione più sicura.

Con una piccola barca rimediata da un pescatore, e una vela, aiutandosi anche con i remi, in un pomeriggio assolato, essi si misero per mare, navigando sottocosta attraverso il canale di Pitecusa, che era sulla loro destra e poi Vivara e Procida, proprio davanti al capo detto di Miseno, il pilota di Enea che cadde a mare proprio qui.

Sopra Pithecusa, la montagna emetteva fumi ma non si sentivano rimbombi, né altri rumori, come ricordava Omero, nel 2° canto dell’Iliade, che la chiamò con un altro suo nome, Inarime,,quando dopo avere elencato tutte le forze achee in campo, diceva che quando esse si muovono il terreno rimbomba” come quando il fulminante irato Giove, Inarime flagella…”.

Pithecusa, l’isola delle scimmie, detta anche Inarime, di cui si raccontava che Giove avesse rinchiuso sotto la montagna il gigante Tifeo che ogni tanto si muove e da origine a i sommovimenti della terra, era abitata da una tranquilla popolazione indigena: intorno all’VIII sec. vi sbarcarono greci dell’isola Eubea e vi si installarono, creando una fiorente civiltà e una industria di vasi di terracotta e ceramica.

Molti di questi, si raccontava, terrorizzati dai continui terremoti e eruzioni, si allontanarono dall’isola e andarono poi a fondare Cuma, sulla terraferma.

“Guardate- disse Cleomene che teneva il remo come un timone – guardate su quello scoglio…”.

Su uno scoglio altissimo,forse più di 100 metri, videro, tra le rocce, persone che si arrampicavano, salivano su scale scavate nella roccia e tiravano su, con funi, blocchi di tufo giallo da una nave da carico, ancorata sotto, e altro materiale, mentre sopra si intravedevano sentinelle armate, come se controllassero i lavori: “sembra stiano costruendo qualcosa, .. forse un posto di guardia.”( castello aragonese).

Due triremi da guerra navigavano lentamente al largo.

A sinistra la costa, oltre Miseno, la spiaggia fumante, fumarole e odore di zolfo, l’Averno dove si diceva che Ulisse fosse sceso per incontrare Tiresia, l’indovino cieco; si era fatta sera, la paura e il timore li rallentavano, videro un piccolo abitato, ( Pozzuoli), accostarono a riva, e sostarono per la notte.

La mattina dopo, con il sole già alto, continuarono la navigazione: tutto il golfo appariva circondato da montagne e colline, da capo Miseno fino alla altra punta estrema (Punta campanella) e l’isola di Capri.

Colline verdeggianti, rocce sporgenti sul mare, grandi alberi, querce, pini marittimi, arbusti di mirto e lecci e in lontananza il Vesuvio fumante; dal mare vedevano scendere a valle dalle colline, fiumi impetuosi simili a cascate.

Superato un altro promontorio e un isolotto, seguendo le spiagge scorsero una ampia foce di un fiume, a poca distanza l’isola di Megaride, poco più di uno scoglio disabitato, di fronte, il molo di un piccolo porto e sopra la collina a picco, una muraglia giallastra, con torri di guardia.

All’ancora, nel porto, piccole navi panciute, da trasporto e una veloce trireme militare, che inalberava un vessillo di Siracusa, pescatori che scaricavano la loro mercanzia, marinai e soldati che ripulivano le navi e andavano e venivano dalla rocca.

“Siamo a Partenope, lì si può vedere quel che resta del sepolcro di Partenope”, la Sirena, solo una grande testa di marmo, il resto è tutto malandato e semidistrutto.

La leggenda raccontava che il culto di Partenope preesisteva all’arrivo dei coloni; si raccontava di Cassandra, la figlia di Priamo di Troia, che aveva predetto a Ulisse la vittoria sulle sirene e il culto di una di queste sui lidi del golfo dove il mare farà giungere il suo corpo. Sul suo sepolcro, ogni anno, vergini sacrificavano buoi in suo onore.

Il piccolo centro abitato appariva quasi deserto, solo le sentinelle sulle torri e alla porta che va verso il porto, le case malandate e in rovina, da una taverna uscivano effluvi di carni cotte e si udivano voci di avventori. Sulla porta era apparsa una ragazza, avvolta in una veste semitrasparente, che li aveva invitati ad entrare.

Stazzi per animali erano accostati alle case, galline e pecore chiuse nei recinti, e un tale stava dandogli da mangiare, gli chiesero dove trovare il demarco, il governatore della città.

“L’avete trovato, sono io. Mi chiamo Ceculo”. Completamente calvo, tarchiato, con addosso una specie di tunica gialla, sporca e unta, dall’accento si capiva che non era né greco né di Cuma, ..ma probabilmente essere osco o dell’interno.

Egli non li fece neanche finire: “Qui sta andando tutto in rovina, il porto si sta insabbiando, stiamo andando via tutti, tra poco qui ci sarà solo una necropoli”.(che è stata scoperta in via Nicotera, sopra Pizzofalcone)

“Andremo poco più avanti, verso oriente, oltre il fiume”, dalla rocca indicava con la mano un altopiano degradante verso il mare, “ il Sebeto che sfocia qui davanti, a oriente ce n’è un altro, che costeggia a nord quell’altopiano, e più avanti ancora il Clanis, tutti e due vanno in una grande palude a oriente e poi sfociano a mare”.

“Lì potete esserci anche voi, fare la vostra città, la posizione è ottima e c’è spazio sufficiente per una vera e propria città. Ma, prima, come si faceva una volta, dovreste interpellare gli Dei, andare a Delfi e avere il responso di Febo/Helios, il dio del sole.C’è qui una di quelle piccole navi, la Cassiopea, che tra due giorni parte per la Grecia, potete chiedere un passaggio e andare a Delfi”.

“Non è necessario, noi non fonderemo una nuova città, ma solo un proseguimento di Partenope”, diceva il saggio Aristone,” cioè trasferiamo le persone e l’abitato un po’ più avanti, e la chiameremo soltanto nuova città, Nea polis, nuova rispetto a Partenope, che chiameremo Palepoli- città vecchia- ma non diversa o opposta”.

Il ragionamento sembrava giusto, senza alcun dispendio di tempo e soldi, si convinsero presto e tornarono indietro, chi a Cuma, chi a Pitecusa, per riferire e organizzare la partenza e la fondazione. La notizia si sparge rapidamente anche fuori dai territori cumani e in breve tempo arrivava anche ad Atene.

Il governo fu subito favorevole alla loro partenza, più presto vanno via e meglio è per tutti, ma si sbagliava, poiché non erano queste le intenzioni degli esuli, e se ne accorgerà presto.

Ora però si trattava di organizzare un migliaio di persone, donne, bambini, vecchi, uomini, animali e altro, bisognava procurare imbarcazioni, carri, e materiale vario.

Ma per il momento sarebbero andati solo uomini, divisi in squadre ognuno con un responsabile, secondo le attività da svolgere.

Partirono, perciò, per prendere possesso del territorio, solo un gruppo di marnai, contadini, schiavi falegnami e muratori con un architetto, e tecnici per costruzioni edilizie e un gruppo di guerrieri mercenari , per garantire la sicurezza del’insediamento.

Imbarcarono con loro, alcuni cavalli , una coppia di buoi e gli aratri, oltre agli arnesi per tagliare alberi e per edilizia, per costruire gru di legno per sollevare blocchi di pietra, e capanne.

Sapevano già che avrebbero trovato il materiale giusto scavando nella terra, il tufo, materiale vulcanico, resistente e facile da tagliare a blocchi per le mura esterne, che devono essere robuste e insuperabili..

Per le case, al momento possono essere anche di legno o di mattoni di fango, mentre su in alto sarà necessario costruire il tempio del Sole.

Arrivando dal mare, essi videro, oltre la spiaggia, un “ grande pianoro, in gran parte costituito da un banco di tufo giallo misto ad altri prodotti vulcanici,detto Pendino, scendeva dall’entro terra con lieve pendio fino al mare dove, con un salto di circa otto metri, raggiungeva la spiaggia”(M.Napoli)

Dalle verdi colline circostanti, lecci , querce,pini marittimi, arbusti di mirto, piante e fiori di ogni genere, scendevano a valle fiumi e torrenti, cascate che coprivano grotte e cave, uno il Sebeto che arrivava sotto Partenope,( probabilmente nella zona compresa tra piazza Municipio e Plebiscito), gli altri nella zona orientale dove si stendeva una vasta zona paludosa,

Il luogo non è completamente disabitato, si scorgevano alcune capanne tra la vegetazione, probabilmente contadini o anche pescatori, poiché si vedevano barche tirate in secco sulla spiaggia.

Lo sbarco avvenne in piena tranquillità, sulla spiaggia arrivarono un paio di pescatori per vedere cosa succedeva e si fermano a dovuta distanza.

Si radunarono uomini e animali e materiale in una bellissima pineta, oltre la quale iniziava la pendenza verso l’entroterra, e vicino una insenatura del fiume., dove poterono essere protette le navi.

“Per ora ci accamperemo qui, controlleremo le navi e potremo andare verso l’interno per vedere, abbiamo da bere per noi e gli animali, abbiamo frutta, e si può andare a caccia…”..

Lasciati a guardia dell’accampamento alcuni mercenari e altri operai, altri incaricati della caccia,,tutti gli altri divisi in squadre, chi a piedi e chi a cavallo cercarono di visitare il territorio.

Non c’erano strade ma solo piccoli e stretti sentieri tra i boschi, era difficoltoso superare la salita, bisognava tracciare anche una mappa del terreno per costruire le mura.

In effetti non occorreva molto, perchè la città appariva già naturalmente pronta: da un lato la zona era già naturalmente protetta dalle colline, grande spazio sufficiente per lo sviluppo di una città, sia per il porto, sia per le abitazioni, sia in alto per i templi religiosi. La città appariva già delimitata dai fiumi e dal loro tracciato: uno, il Sebeto che va giù dritto verso occidente fino alla foce, un prolungamento di questo corso d’acqua gira verso est e va a congiungersi con il Clanis dando luogo alla palude che chiude naturalmente la città; dall’altro lato c’è il mare. Il tracciato delle mura avrebbe necessariamente seguito le indicazioni e le irregolarità del terreno, costruendo le mura parallelamente ai fiumi. Il porto sarebbe stato fuori dal perimetro, li dove ora erano approdati( piazza Borsa). L’interno verrà dopo, ma come per altre città, ci saranno strade dritte e larghe est/ovest e altre più piccole, ma sempre dritte, nord/sud, come una griglia. ( Ippodamo di Mileto, urbanista del V° sec.).

Bisognerà solo individuare le cave per prendere i blocchi di tufo e sistemarle, ma per ora si farà una palizzata con il legno degli alberi.

Le mura saranno a secco, altissime, a doppia cortina, ci saranno torri di guardia e le porte saranno sistemate al termine di ogni strada, sia grande sia piccola, e saranno attentamente vigilate.(°)

Depositi alimentari, magazzini e stazzi per animali saranno costruiti presso le mura.

Sulla parte più alta della città, l’Acropoli, ci saranno gli edifici della Autorità civile e il tempio dedicato a Febo,il dio del Sole, con bianche colonne corinzie e un frontone sul quale sarà dipinto il dio del sole con il suo carro, e ci sarà un bel sentiero ombreggiato da pini e querce, per arrivarci, e per questo sarà chiamato la via del Sole.

Più giù, verso il centro della città, vicino all’agora (agorà), costruiremo altri edifici, uno dedicato a Artemide e un altro più avanti ai Gemelli divini, Castore e Polluce, Naturalmente ci sarà un gimnasium ( una palestra, ginnasium ) e un teatro.

La città crescerà , sarà governata da un demarco,un magistrato annuale, e sarà abitata da un miscuglio di popolazioni locali e greche e quelle cumane dei fondatori.

Come primo gesto ufficiale, per vendicarsi di Cuma, essi si impadroniranno di Pithecusa e del porto di capo Miseno, appena i presidi siracusani se ne saranno andati.

Tra pochi anni, quella piccola repubblica posta tra i sette colli si affaccerà sulle colline e conquisterà la città, ma apprenderà l’arte di navigare, una cultura e un diverso modo di vivere.

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(°) Le mura, dicono gli studiosi, si prolungavano lungo l’attuale via Costantinopoli, giravano a destra verso la via Foria, dove c’è la porta S.Gennaro, e deviavano a via S.Giovanni a Carbonara verso la zona di Forcella, dove ci sono tracce ancora visibili in piazza Calenda; da qui scendevano verso la spiaggia che all’epoca si stendeva lungo il corso Umberto, la strada detta il Rettifilo, risalivano il dislivello di via Mezzocannone, e, lungo la direttrice di P.za S.Domenico e via S.Sebastiano, si ricongiungevano a piazza Bellini. Il porto doveva trovarsi nella zona di piazza Borsa.

domenica 14 agosto 2011

Giustizia ordinaria


Questo che sto per raccontare non è l’unico procedimento penale aperto nei miei confronti, perché a chi fa il mio mestiere - direttore penitenziario -, ne capitano di tutti i colori. Tutti gli altri, iniziati o sulla base di lettere anonime o da parte dei sindacati del personale, quasi mai da parte degli “utenti”, si sono esauriti in fase istruttoria, con l’archiviazione. In questo caso, invece, il P.M., un giovanotto scapigliato e arrogante, unitamente al G.I. dell’epoca, un siciliano presuntuoso, fece un pronostico di condanna.Comincerò dalla fine, cioè il 24 febbraio 1994: si chiudeva, dopo appena 6 anni, tempi rapidi per la nostra giustizia, - ma solo perché il processo fu fatto su mia richiesta pressante per la necessità di portarlo a termine, altrimenti sarebbe andato prescritto -, con una sentenza di piena assoluzione un procedimento penale per falso ideologico a carico del sottoscritto e di due contabili.In particolare il sottoscritto fu assolto da un lato perché il fatto non costituisce reato e dall’altro per non aver commesso il fatto.Contro la sentenza non fu proposto appello neanche da parte del P.M. - che in aula, aveva chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati; era la stessa persona che, all’inizio del procedimento, aveva pronosticato la loro colpevolezza e quindi la condanna.L’accusa riguardava atti amministrativi-contabili, che, secondo l’accusa, erano viziati da falsità ideologica: in parole povere, si trattava di verbali che descrivevano lo svolgimento di determinate attività – conteggio e verifica soldi esistenti in cassa -, che secondo il P.M. e il G.I., non sarebbero state realmente svolte, per cui falsati” intenzionalmente”,cioè con dolo, per ingannare le autorità addette ai controlli.E’ impossibile fare un racconto particolareggiato delle procedure, ci vorrebbero pagine e pagine e spiegazioni tecniche giuridiche e amministrative. Ridurrò perciò la storia ai momenti e ai passaggi che credo essenziali.

Tutto era iniziato nel 1988.La situazione amministrativa era molto disordinata e a nulla erano serviti inviti e ordini ai contabili di affrontarla e risolverla. Ovviamente gli uffici ispettivi addetti al controllo di queste attività, erano in allarme.In quel periodo avevo dovuto anche assentarmi per problemi di salute, e la situazione amministrativa non aveva ancora trovato soluzione.Proprio durante la mia assenza, nel mese di marzo di quell’anno, nel corso di una ispezione fu rilevato che i soldi - liquidi- esistenti nella cassa, non corrispondevano a quello che invece era scritto nei verbali. Tralascio per brevità i particolari e soprattutto la demenziale lettera che l’ispettore verificante aveva scritto al Ministero, in particolare si affermava che i soldi in cassa erano di più di quelli risultanti dagli atti : “ normalmente….si tratta di danaro che dovrebbe esserci e non c’è, mentre qui è per denaro che doveva non esserci e c’era…”. Già da questo doveva essere evidente il solo e semplice disordine. I contabili, messi sotto pressione, trovarono l’errore che aveva provocato le differenze e i conti tornavano con quanto risultava dai verbali, ma il soggetto scriveva: “Feci personalmente anche io la verifica e riscontrai una differenza di L.5.682 quale eccedenza di danaro, piccola cosa, in confronto alla grossa questione che si prospettava” .Il dott. I.I., un toscano già conosciuto in altre sedi per sue manìe e intemperanze, e non volendo chiudere la questione perché aveva tutta l’intenzione di danneggiare il direttore, scriveva:” Eppure una spiegazione ci deve essere e io purtroppo non la so dare…”, con ragionamenti sconclusionati in cui ipotizzava che in quella situazione ” nulla non può starci dal nulla a qualcosa di ignoto, ma il spiega l’assurdo e l’ignoto può essere anche illecito…” , prima venne a trovarmi, perché ero in malattia post intervento chirurgico e poi si recò in Procura della repubblica per denunziare me e altri.. .Seguirono immediatamente sequestro di registi e scritture di cassa e comunicazione giudiziaria.Seguì, dopo più di un anno, settembre 1989, un mandato di comparizione avanti al giudice istruttore, dott. F. G., perché:”.. emergono sufficienti indizi di colpevolezza dalla relazione del 29/6/88 dell’ispettore distrettuale, confermata giudizialmente, nonché dal rapporto del nucleo regionale P.T. della G.d.F.”. Le imputazioni erano cose da pazzi: io per omissione d’atti d’ufficio, perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, indebitamente omettevo di effettuare le verifiche trimestrali di cassa prevedute dal vigente regolamento, reato commesso dalì’aprile 1985 al giugno 1987, e unitamente ai contabili imputati tutti in base all’ art.110 c.p. e 479 c.p. in relazione a art. 476 e 493 c.p. perché in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualità di pubblici ufficiali, formando il verbali di verifica di cassa, attestavano falsamente di aver compiuto la verifica e/o che la verifica era avvenuta in loro presenza e/o comunque attestavano falsamente la corrispondenza fra le risultanze contabili e le risultanze di cassa, reato commesso il 15/4/85 ,il 9/7/85 ,il 5/10/85 ,il 14/1/86 .Gli stessi di cui sopra , per l’ art. 81 cpv, 110 c.p. –48-479 c.p. perché , sempre in concorso e con più azioni , inducevano in errore con inganno il funzionario della ragioneria regionale dott. M.H., inganno consistito nell’integrare con danaro estraneo, quello realmente esistente in cassa.Nell’interrogatorio del 7 ottobre 1989, ci si aspettava che, vista l’accusa relativa a documenti, e di false attestazioni negli stessi, venissero almeno mostrati gli atti in questione: ma nulla di tutto ciò, e tutti dichiararono la propria estraneità alle accuse.Dopo quel giorno di ottobre 1989, non si ebbero più notizie sulla vicenda, anzi quando a giugno 1990, lasciai l’incarico, me ne ero completamente dimenticato.La notizia del rinvio a giudizio arrivò a febbraio 1991, dall’avvocato, che a sua volta l’aveva saputo, e… da chi ? Dalla stampa, anzi dal giornalista, che gli aveva telefonato per informazioni.Lo stesso giornalista, con un comportamento di serietà professionale, mi aveva poi telefonato quasi per chieder scusa della notizia che doveva pubblicare.Al contrario, un altro giornale locale aveva pubblicato la notizia , distorcendo i fatti, e si beccò una querela per diffamazione, e fu costretto al patteggiamento della pena.Due giorni dopo, per provocazione, presentai domanda per rientrare nell’Amministrazione .Ma anche questa questione non fu semplice: al Ministero avevano assicurato la immediata riassunzione, ma nel C.d.A, si verificarono problemi con un sindacalista – all’epoca i sindacati erano presenti nel cda e se non eri nelle loro grazie, non potevi far nulla -, della CISL, tale S.B., queste le iniziali, che sollevò il problema del procedimento penale pendente, oltre a dipingermi come un mostro di abusi e varie infamità. A quel punto il dirigente del Ministero. presente, tale C., non ebbe coraggio, e sospese la riammissione in attesa della definizione del processo.Ricevuta questa bella notizia, era il 1992, non restava altro da fare che chiedere l’immediata celebrazione del processo. Ma non fu facile neanche questa, a causa di svariati rinvii per diversi motivi, sui quali sorvolo per brevità del discorso.

L’ordinanza di rinvio a giudizio faceva acqua da tutte le parti, e prestò facilmente il fianco a una dettagliata relazione difensiva predisposta da me stesso, per la quale che ricevetti i complimenti non solo del difensore ma anche della Accusa.Peraltro, gli atti presunti falsi non risultavano NEANCHE nel fascicolo processuale, fu una sorpresa anche per l’avvocato non trovarli, devo pensare che qualcuno non voleva farli vedere. Ne richiesi copia alla Direzione del carcere, ma il caro collega – E.Sb. - me li negò, e fu necessario l’ordine del presidente del Tribunale- ecco uno dei motivi di rinvio - per averle, e su quelli, tutta l’accusa, cadde: le firme del direttore non c’erano , in alcune date risultò che egli era assente per ferie o altro.L’illustrazione del ruolo del direttore, i suoi molteplici compiti e relative varie responsabilità, la contestualizzazione degli episodi, la più attenta lettura degli stessi verbali, le testimonianze di quelli che, secondo l’accusa, sarebbero stati ingannati e dello stesso ispettore denunziante, l’assenza di dolo e di qualsiasi interesse o profitto, smontarono completamente tutte le accuse anche quelle a carico dei contabili, e lo stesso P.M., che all’inizio aveva pronosticato la condanna di tutti, nel marzo 1994 chiese l’assoluzione.Ad agosto 1994, venivo riammesso in servizio, con grande scorno di chi aveva fatto di tutto per ostacolarlo, compreso quel direttore che mi aveva negato le copie degli atti per la difesa. Questa la verità reale e la verità giudiziaria. Ma ci sono altre verità: una indagine, e una istruttoria più seria e approfondita, avrebbe evitato spreco di energie, soldi e tempo: non si possono affidare indagini in un settore così delicato come la contabilità pubblica e quella penitenziaria in particolare, prima a un pur bravo maresciallo della GdF, e poi a uno che di mestiere fa il commercialista; non si fa una indagine senza sentire testimoni, o gli stessi imputati, ai quali non fu mai fatta una specifica o dettagliata contestazione, né furono mostrati verbali, documenti e altro, e soprattutto fu confuso il ruolo dei contabili, responsabili tecnici di quell’area, con quello del dirigente.Nessun dirigente, specialmente in un settore così particolare, preso da molteplici impegni in campi così diversi: sicurezza, trattamento socio-psicologico, sanitario, gestione del personale, amministrazione e contabilità, può svolgere, e, di fatto non svolge di persona , – immaginiamo il dirigente di un grosso istituto come S.Vittore a Milano o Poggioreale a Napoli - , certe attività contabili, sulla base di un regolamento di contabilità del 1923, così come non svolge direttamente le funzioni di sicurezza, affidate al Corpo della polizia penitenziaria, o le altre funzioni. La sua è una funzione di coordinamento e organizzazione dei vari servizi e le responsabilità sono relative al fatto di essere il capo dell’istituto, mentre come è noto anche a uno studente del primo anno di giurisprudenza, la responsabilità penale è personale.