martedì 27 settembre 2011

Itinerari







“.. Ormai sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero…Il che, bada bene, non toglie che io possa sognare di tornare a vivere a Napoli. Come no! Difatti lo sogno in continuazione..”

Ermanno Rea:” Napoli ferrovia”

Pur vivendo lontano da Napoli da tanti anni, Domenico è affetto da una malattia che si aggrava con il passare degli anni, la napoletanite acuta, un misto di nostalgia e rimpianti per qualcosa, o anche qualcuno, che non c’è più. Avrebbe potuto tornarci tanto tempo fa - dice ogni tanto -, per lavoro,” me ne fu offerta la possibilità e rifiutai “.Il ritorno in questa città rimane solo una fantasia, un sogno, che si concreta solo in quelle poche occasioni, e sempre nello stesso itinerario.Oltre a percorrere le strade del Vomero - il quartiere collinare dove D. viveva fino a quando andò via per lavoro -, non c’è una volta che non va nella città vecchia, alla ricerca delle proprie radici.Piazza Dante, Port‘Alba, via Tribunali , Piazza S. Gaetano , S. Gregorio Armeno , il Duomo , Porta Capuana , Spaccanapoli: è questo l’itinerario, solito e ormai abusato, pieno di turisti alla ricerca di colore locale.Pochi sanno che quel tragitto è anche un viaggio nel tempo, imprevedibile per chi non lo conosce, e disordinato, per le sovrapposizioni e rimescolamenti di stili secolari, di monumenti e di edifici di ogni epoca.Prima però, è necessario togliersi dalla mente il folclore, i luoghi comuni sulla città : ‘o sole, ‘o mare, ‘a pizza, ‘e canzone, ‘e scugnizze, …; poi c’è la delinquenza, quella piccola degli scippi, e quella più grave, la camorra, che ormai inquina e rovina la città e non solo,” ‘a munnezza “, l’inosservanza delle regole, il fatalismo e le improvvise collere di un popolo che sopporta tutto, ma che quando si arrabbia diventa violento e pericoloso, come Masaniello.

Piazza Dante era, ed è ancora il luogo di passaggio tra la parte più antica – intra moenia - della città , e tutto ciò che è venuto dopo, la via Toledo, i quartieri spagnoli, Montesanto, il Vomero.Da ragazzino, Domenico doveva necessariamente passare per questo largo; una parte della famiglia abitava nella zona più antica, l’altra, invece, o a Montesanto, nella casa paterna, vicino alla ferrovia Cumana e alla funicolare che porta alla collina del Vomero, o ai Quartieri.Oggi , nella piazza c’è la metropolitana; ci sono tre uscite, una sotto al palazzo del Comune , le altre due – coperte da orrende vetrate - ai lati della statua di Dante Alighieri .Questa statua fu sistemata lì dopo l’unità, nel 1872: è opera di Tito Angelini , scultore, nato a Napoli nel 1806.Il poeta aveva riempito di sé l’intera piazza: sulla destra c’era una volta il bel ristorante “ Dante e Beatrice “ mentre di fronte, all’angolo c’era il bar “ Dante “, che oggi non ci sono più.In una famosa poesia, Salvatore di Giacomo narra che Dio, un giorno, si fa accompagnare a Napoli da S.Pietro e, arrivati proprio in piazza Dante, chiede,con accento straniero: “ la statua qui davante cosa l’è? L’Aligherio?...- No, - dicette S.Pietro – questo è Dante…grand’uomo!... e questa sulla mano destra è la famosa chiesa ‘e San Michele: quello è il liceo Vittorio Emanuele; più sopra c’è il Museo….”. In questi pochi versi c’è la descrizione della piazza e delle cose notevoli.L’entrata del liceo – parificato - è proprio dietro a Dante, così familiarmente chiamato, al centro dell’emiciclo, che ha da un lato la chiesa di S.Michele e dall’altra Porta Alba.L’emiciclo fu ideato e sistemato nel XVIII sec. da Luigi VanvitelliNato a Napoli da Gaspar Van Wittel , modesto pittore olandese, Luigi deve la sua fama mondiale al primo Borbone di Napoli, Carlo , che lo nominò architetto di corte e gli affidò tutti gli interventi edilizi e urbanistici del regno, fino a quella che poi diventò la sua opera più famosa , la reggia di Caserta.Lui e la sua scuola riempirono non solo Napoli, Caserta e mezza Campania, ma l’Europa, di palazzi, strade e piazze, edifici di ogni genere, giardini e altro.L' emiciclo di piazza Dante non sembra una delle sue opere migliori: il largo fu chiamato, Foro Carolino proprio per onorare il re. Al centro il liceo, a lato, un paio di librerie di libri scolastici e universitari, espongono su bancarelle libri usati, antichi o no, a prezzi stracciati

Fino al rifacimento vanvitelliano, qui era il largo del Mercatello, detto così percuna volta alla settimana vi si svolgeva un mercato: immaginiamo venditori ambulanti provenienti dai paesi e dalle colline circostanti, bancarelle, saltimbanchi e teatranti, che riempivano il largo con i carri, cavalli, muli, e le loro mercanzie.Il largo era costeggiato dalle mura della città. Esse risalivano al 1537, quando il vicerè dell’epoca , Pedro di Toledo – rimasto famoso per aver tracciato la strada che ancora oggi porta il suo nome - , decise di allargare la città e quindi le vecchie mura angioine.Per avere un ‘idea di come era il largo, bisogna recarsi al Museo nazionale di S. Martino, al Vomero, e vedere un dipinto di Micco Spadaro.

Micco, diminutivo di Domenico, si chiamava in realtà Domenico Gargiulo, era nato a Napoli nel 1610, e fu soprannominato “spadaro” perché aveva lavorato da ragazzino nella officina del padre, fabbro,” forgiator di spade”; e sembra che di spade se ne intendesse, perché le usava come e meglio del pennello, insieme a un gruppetto di suoi esuberanti amici pittori, come Mattia Preti, Salvator Rosa, Aniello Falcone e altri.Il largo venne ritratto in occasione della peste del 1656, quando era ridotto a un lazzaretto, ma si vedono molto bene le mura della città e sulla sinistra una porta: è Port’Alba, quasi immutata da allora.

Il breve tratto di strada che collega questa a una controporta, per fortuna “ zona pedonale “ , è percorso ogni giorno da migliaia di persone ed è pieno di librerie e bancarelle di libri antichi e moderni , soprattutto scolastici e universitari , venduti a prezzi di saldo.Più avanti, proprio nell’angolo della controporta, c’è ancora la antica pizzeria “port’alba” , con il suo banco sulla strada per la vendita di pizze da consumare in piedi, ripiegate a “libretto”, come si faceva una volta, uscendo dal vicino liceo – statale - di via S.Sebastiano, a cinquanta lire.Prima della porta c’era un vecchio torrione difensivo, risalente alla murazione angioina del 1300. Per entrare e uscire dalla città verso il Mercatello, era necessario utilizzare altre porte più lontane, e fare un bel giro largo.Si racconta che gli abitanti della zona, stanchi di dovere allungare il tragitto per entrare e uscire, cominciarono a scavare di nascosto, alla base del torrione, “ nu’ pertuso “ – un pertugio, un buco – per poter passare almeno uno alla volta. Le autorità intervenivano regolarmente per tapparlo, ma, ogni volta, i “ soliti ignoti “, i furbi, riprendevano a scavare.Visto inutile ogni intervento e viste le continue petizioni della cittadinanza, nel 1624, il vicerè duca d’Alba, acconsentì alla demolizione del torrione e alla costruzione prima di un piccolo passaggio e poi alla costruzione della porta che, da lui, prese il nome.

Fuori Port’Alba, ci sono tre strade, una a destra, via S, Sebastiano,che scende verso S.Chiara e piazza del Gesù, la strada della musica, per la presenza di tanti negozi di strumenti musicali, a destra scendendol’ingresso del liceo, “Vittorio Emanuele“, quello statale, che Domenico aveva frequentato. A sinistra,la via Costantinopoli,che va verso il Museo nazionale.

Di fronte, circondati da bar, da una famosa pizzeria, con i loro tavolini e ombrelloni, dal traffico e cartelloni pubblicitari, in uno scavo di pochi metri, sotto la statua di Bellini, nella omonima piazza, resti di mura antiche.

Sono mura greche della città, risalenti, secondo l ‘opinione generale degli studiosi, al primo ampliamento, effettuato nel IV sec.a.c., probabilmente poco prima della conquista romana.Le mura, dicono gli studiosi, si prolungavano lungo l’attuale via Costantinopoli, giravano a destra verso la via Foria, dove c’è la porta S.Gennaro, e deviavano a via S.Giovanni a Carbonara verso la zona di Forcella, dove ci sono tracce ancora visibili in piazza Calenda; da qui scendevano verso la spiaggia che all’epoca si stendeva lungo la strada detta il Rettifilo, risalivano il dislivello di via Mezzocannone, e, lungo la direttrice di P.za S.Domenico e via S.Sebastiano, si ricongiungevano a piazza Bellini. Il porto doveva trovarsi nella zona di piazza Borsa.

La città fu fondata nel V° sec. a.c. ad opera di abitanti della colonia greca più importante del Tirreno, Cuma, scacciati dalla città in seguito a contrasti politici interni.Il territorio era abitato da popolazioni indigene, chiamati Osci, e più all’interno dai Sanniti, mentre anche gli Etruschi, dalla Toscana, si erano spinti a Capua e anche più a sud, forse Pompei stessa.Esisteva inoltre un insediamento greco risalente secondo alcuni a una colonizzazione achea del IX sec, o forse precedente, chiamato Partenope, mitico nome di una sirena, a occidente, sul monte Echia, identificabile oggi con la zona a monte di Piazza Plebiscito, di fronte al Castel dell’ovo..Quando si nominano gli Achei non si può non ripensare alla guerra di Troia, agli eroi achei, a Ulisse, che, secondo la tradizione, naviga in questi luoghi e scende nell’Averno, situato a pochi chilometri da qui, ai fumanti Campi Flegrei, e anche a Enea, che a Cuma, si avvia verso “ l’antro immenso che nel monte penetra; avvi d’intorno centovie, cento porte, e cento voci n ’escono insieme, allor che la Sibilla, le sue risposte intuona”.Cuma, importante e potente città della Magna Grecia; fondata nell’VIII sec da coloni Euboici, dovette lottare e imporsi tra gli Etruschi e i Latini e altre popolazioni indigene, nel VI sec dominava il mare in tutto il golfo, e sicuramente sulle isole di Ischia, Procida e Capri ; intervenne militarmente anche verso Roma, dove era stato da poco cacciato l’ultimo re Tarquinio il superbo, che si rifugiò proprio a Cuma.

Per maggiori notizie sulla fondazione, si può leggere, su questo stesso blog, la ” Fondazione “.

ITINERARI -

Tornando alle mura di piazza Bellini, si racconta che erano tanto alte e forti, che nessuno riuscì a superarle con la forza. Esse stanno ancora lì, e solo la violenza e la rapina dell’uomo le hanno ridotte a quel che si vede oggi.

Girato l’angolo, con un salto nel tempo di circa sedici secoli , ecco il Conservatoro di musica e la chiesa di S.Pietro a Maiella, costruita alla fine del XIII sec., da Carlo II d’Angiò.

I Francesi Angiou erano arrivati in città intorno al 1260, chiamati dal Partito dei Guelfi e dal Papa, che voleva a tutti i costi distruggere i discendenti dell’imperatore Federico II, capo della fazione ghibellina e suo acerrimo nemico.Il legame tra il Papa e gli Angioini, fece sì che la città, favorita come capitale del regno al posto di Palermo che li aveva cacciati all’epoca dei “Vespri siciliani”, si riempisse di conventi e chiese , di frati e monache tutti gli ordini religiosi e che fosse introdotta l’Inquisizione.

Fu una vera e propria frenesia quella di edificare chiese e monasteri, che indusse a sfruttare tutti gli spazi ancora disponibili entro le mura, distruggendo campi, orti e giardini, torri e porte di accesso, senza alcun rispetto per il passato della città, buttando giù antiche costruzioni e depredandone materiali e arredi. Secondo una cronaca dell’epoca , il Re “ vedendo la città de Napoli esser popolosa, se deliberò levare li giardini li quali assai ce n’erano in Napoli e tutti li fè edificare “. Secondo alcuni studiosi, quì cera una porta, denominata Donnorso, che si apriva sul decumano maggiore, la via Tribunali . La chiesa, in puro stile gotico, fu intitolata a S.Pietro a Maiella in onore di Pietro da Morrone , già eremita sulla Maiella e poi eletto papa con il nome di Celestino V, colui che, per dirla con Dante, fece “ per viltade il gran rifiuto “. La chiesa ha un ingresso su largo L. Miraglia, una volta grande e silenzioso, oggi sconvolto da inutili marciapiedi, che lo hanno ridotto a parcheggio selvaggio di auto e scooter. Superata la fatiscente cittadella universitaria del policlinico “ vecchio“, a sinistra sale verso il decumano superiore, la via del Sole, l’antico vicus solis, del quale è rimasto solo il nome: un nome antichissimo che riporta al culto del dio Apollo/Febo sul carro del sole. A destra scende la via detta calata San Severo, dove a suo tempo nei primi anni ‘50, in un vecchio palazzo nobiliare, che credo fosse quello della famiglia che dà il nome alla strada,in enormi stanzoni, su vecchi banchi di legno, Domenico aveva frequentato la scuola elementare “ V. COLONNA”, sparita oggi, come tante altre cose. E poi c’è via Nilo, antico cardine che congiunge la via Tribunali - decumano maggiore- con Spaccanapoli- decumanus inferior-: una stradina stretta tra palazzoni d’epoca, bassi, bancarelle e locali commerciali che espongono la mercanzia. In quel palazzo colorato di rosso , un edificio sicuramente risalente al XV° o XVI ° sec. con un grande cortile interno, all’ultimo piano, in due grandi stanzoni, Domenico abitava, da ragazzino con la famiglia, prima di fare, come molti, il balzo sulla zona collinare, al Vomero.

Il nome della strada può anche stupire, ma rimanda al ricordo che quella zona, ai tempi dell’impero romano, era la regio alexandrina o nilensis, perché abitata soprattutto da immigrati da Alessandria d’Egitto. Come non lasciarsi prendere da certi ricordi: qui si cammina veramente su più di 2000 anni di storia, qui camminavano, ciondolavano, parlavano, svolgevano i commerci, abitavano, insomma vivevano, tutti quelli che ci hanno preceduto. Tutto è stato toccato, modificato,rimosso e nascosto, mischiato, solo l’antico tracciato urbano è rimasto praticamente inalterato.

I miscugli delle varie epoche e dei diversi stili architettonici che si incontrano per strada, per chi sa guardare con un po’ di attenzione, restituiscono una immagine documentata di tutte le epoche della città: ad esempio, guardiamo gli edifici religiosi, come il campanile della Pietrasanta, costruita sul tempio di Diana, in stile romanico, ma nel quale sono incastrati frammenti di epoca romana, e lo stesso Duomo , nel quale si ritrovano colonne della epoca romana prelevate da costruzioni precedenti.Tutti gli edifici, anche quelli che vediamo oggi, pubblici, privati, religiosi, furono costruite sopra gli antichi isolati – le “ insulae “ romane – rispettandone perfino le angolazioni con le strade, incorporando i resti delle mura, dei templi e delle domus, come fondamenta. Nei sottoscala di alcuni palazzi, nelle botteghe e nei “ bassi “, basta aprire una botola o scendere pochi gradini per ritrovarsi indietro di 2000 anni, basta scrostare un intonaco per rivedere un affresco. Superata la chiesa delle “ cape e’ morte “, cosiddetta per la presenza di teschi sistemati all’ingresso, sulla strada, su blocchi di pietra, percorrendo via Tribunali, arriviamo a piazza S.Gaetano, il centro della città vecchia: qui, ai tempi antichi, era l’agora - agorà greca -, il Foro romano, dove convergevano tutte le strade, un grandioso spazio aperto che arrivava, dicono, fino alla attuale zona del Duomo. In tutta l’area si tenevano, a quei tempi, riunioni pubbliche e assemblee, c’erano edifici pubblici per il governo della città, templi dedicati agli dei, teatri e il mercato.


A sinistra, la basilica di S.Paolo maggiore e la statua di S.Gaetano, la strada che sale a nord verso il decumano superiore, la via detta dell’Anticaglia; sulla destra c’è la Basilica di S. Lorenzo maggiore; a fianco, il cardine maior di età grecoromana, oggi S.Gregorio Armeno, più famoso per i negozi dei “pastori”, le statuine del presepe, che scende a sud e si congiunge con il decumano inferiore, meglio conosciuto come Spaccanapoli. A questo punto sembra giunto il momento di spiegare cosa sono decumani e cardini.

Se prendiamo una pianta topografica attuale del centro antico della città, evidenziamo via Anticaglia, via Tribunali, via S. Biagio dei librai, e le stradine che collegano queste tre strade. Vediamo che si forma una griglia di strade dritte che, salvo piccole deviazioni avvenute nel corso dei secoli, si incrociano ad angolo retto: tre più larghe, in direzione est/ovest, e altre, più piccole,che vanno da nord a sud. Questa griglia è ciò che è rimasto della pianificazione del territorio, ideata da un grande architetto e urbanista greco del V sec. a.c., Ippodamo da Mileto. Le strade larghe - plateiai o platus odos - (si legge e si pronunzia plateiai o platus odòs, larga strada, da qui derivano poi platea, piazza, che sono appunto spazi larghi), seguivano il corso del Sole da est a ovest, quelle più strette - stenodoi -, ( si legge stenodoi, strette strade ) che scendevano da nord a sud. Al centro della griglia, trovi l’ agora, lo spazio per le adunanze dei cittadini, gli edifici pubblici e religiosi, e il mercato. I Romani, considerati dai greci un po’ campagnoli, “ cafuncielli”, in poche parole barbari, arrivati nel 328 a.c., per indicare genericamente le strade e anche i quartieri della loro città, usavano le parole “via” e “vicus”, ma non avevano termini adatti a definire un tracciato urbano come quello trovato a Napoli, come anche in altre città di origine greca.Usavano, però, due parole che indicavano una linea dritta est/ovest, decumanus, e un’altra, cardo, che la incrociava in direzione nord/sud: esse servivano per tracciare i confini dei terreni agricoli. Fu probabilmente naturale adattare questa terminologia a un assetto urbanistico per loro nuovo. Da allora, la denominazione latina è quella che è rimasta nei secoli e nella cultura topografica della città.

“........Il Foro era frequentato da tutti quelli che venivano la mattina ad approvvigionare la città, e le botteghe più ricche ed eleganti facevano bella mostra di sé intorno ad esso. Vi si andava in tutte le ore del giorno per comprare, per disbrigare le faccende… tra la folla numerosi e pittoreschi erano gli stranieri di ogni provenienza, romani, greci, alessandrini, asiatici abbigliati nelle fogge più diverse, venditori di carne cotta, commercianti, fiorai e fruttivendoli..” Le strade intorno erano piene di “tabernae vinariae”, per la vendita di vino e cibi cotti, quelle “argentarie”, per piccoli prestiti a usura, e le “unguentariae”,per unguenti e profumi, c’erano le “cauponae” e “popinae”, trattorie economiche molto frequentate, anche da uomini e donne equivoche e dove ci si poteva anche intrattenere per altri svaghi e, in qualche vicolo oscuro, non doveva mancare un lupanare. La descrizione è di Bartolomeo Capasso, studioso di topografia antica e di storia di Napoli, e, salvo piccoli cambiamenti, potrebbe adattarsi anche alla nostra epoca. Lungo la via Tribunali e le stradine intorno, sotto antichi portici e archi, anneriti dal tempo e dall’incuria, risalenti al periodo angioino e aragonese, botteghe grandi e piccole espongono la loro merce per strada, nelle vie laterali si scorgono bassi e altre botteghe, inserite in palazzi nobiliari di una volta; le voci dei venditori decantano la loro mercanzia, una folla di residenti, commercianti, stranieri e turisti, e possono vedersi anche personaggi loschi, dai quali è meglio stare alla larga, ragazzini in sella a motorini che sfrecciano da un lato all’altro, qualcuno anche con il casco. A pensarci bene, qui non si è conservato solo il vecchio tracciato, ma anche le medesime funzioni , sono spariti solo i palazzi del potere civile, ma sono rimasti gli edifici religiosi più importanti e c’è un mercato variopinto con il contorno di personaggi di vario genere. Qui sotto, però, c’è un altro mercato, quello più antico, ancora visibile, scendendo di pochi metri nel sottosuolo. Sotto la chiesa di S.Lorenzo si ritrova il ”macellum”, che indicava, non come oggi, il luogo della macellazione delle carni, ma un grande mercato coperto di ogni genere commestibile e non, che riuniva tutti i negozi e le varie attività, una specie di quello che oggi è un centro commerciale. E’ emozionante percorrere nel sottosuolo, un tratto di strada costeggiato da botteghe, come quella del panettiere, con il suo forno a legna, la lavanderia e altre; qui dicono ci fosse anche l’erarium, il luogo dove veniva conservato il tesoro della città.

ITINERARI – 3°

Risaliti in superficie ci si ritrova ai nostri giorni, ma,in questa altalena di epoche sovrapposte, ripiombiamo indietro di un millennio, entrando a destra nella basilica di S.Lorenzo.

Su una piccola chiesa paleocristiana – circa del 550 – dedicata già a S.Lorenzo, nel 1280, il re Carlo I d’Angiò iniziò la costruzione, per i frati francescani, di una grande chiesa, in puro stile gotico francese. Interrotta nel 1282, a causa della guerra dei Vespri Siciliani, la costruzione fu ripresa molti anni dopo dal successore, Carlo II. La facciata non è quella originaria, che doveva essere molto più semplice, solo il portale gotico offre ancora la possibilità di vedere gli originari battenti lignei del Trecento. L'interno è formato da una unica navata con cappelle laterali.

Fu qui che Giovanni Boccaccio, a Napoli già dal 1327 per seguire il padre rappresentante del banco dei Bardi di Firenze, durante la messa del sabato santo del 1334, a ventuno anni, incontrò Maria d’Aquino, la figlia naturale del re Roberto d’Angiò e se ne innamorò, idealizzandola poi come Fiammetta. Ed è in questa zona che egli ambientò anche alcune novelle del Decamerone.

Nell’annesso monastero dei frati fu ospitato, nel 1343, Francesco Petrarca. Fu lo stesso poeta a raccontare, in una lettera spedita all’amico cardinale Giovanni Colonna, che la notte del 26 novembre, mentre era nella sua cella del monastero, scoppiò un violento temporale, tuoni, lampi e pioggia, una vera bufera. Impaurito da tale violenza e rimasto al buio, egli chiamò aiuto; accorsero i frati, pure impauriti, ma armati delle uniche armi disponibili in un convento, cioè croci e reliquie, si riunirono al poeta e insieme passarono la notte in preghiera. Come non salire all’altra importante basilica della piazza, quella di S.Paolo maggiore, ma più popolarmente chiamata di S.Gaetano, in ricordo di Gaetano di Tiene, che qui fondò uno dei suoi conventi, e di cui esiste la statua nel bel mezzo della piazza. Di fronte, nel miscuglio non solo di storie e epoche , ma di sacro e profano, per soddisfare la mente ma anche il corpo, c’è un bar e una piccola pasticceria dove sono esposti su un banchetto per strada, dei babà enormi di una grandezza fuori dal comune, e non si può fare a meno di assaggiarli.

Nel I sec.d.c, su questa area c’era il tempio di Castore e Polluce. Esso doveva avere sul davanti una altissima scalinata e un frontespizio con sei o otto colonne di stile corinzio: la larghezza si aggirava sui 17/18 metri e la lunghezza era di circa 25 metri. Le colonne rimasero in piedi fino al 1688, quando un terremoto ne fece crollare la metà. La chiesa originaria fu costruita alle spalle del pronao ( cioè il portico anteriore ) del tempio, che servi da facciata, nell’VIII sec. Si racconta che il 29 giugno del 778, un gruppo di pirati saraceni era riuscito ad avere la meglio sui difensori della città, costringendoli ad arretrare fin sulle rovine del tempio pagano. La resistenza era ormai al limite, quando arrivarono, in soccorso, truppe dei ducati longobardi di Salerno e Benevento, che misero in fuga i nemici. I napoletani, per festeggiare la vittoria, eressero la chiesa e la dedicarono a S.Paolo, la cui festa cristiana cade appunto, ancora oggi, il 29 giugno.

La chiesa, ristrutturata da Gaetano da Tiene nel 1580, è a croce latina , a tre navate; in essa si trovavano affreschi di Massimo Stanzione, quasi tutti persi a seguito di un bombardamento nel 1943, e di Francesco Solimena. Sulla facciata sono restate inglobate due delle antiche colonne, mentre sul piazzale antistante resistono, malgrado tutto, le basi di altre. L’escursione a Napoli sotterranea è una passeggiata, anche misteriosa, che ci porta molto al disotto, circa quaranta metri, della città greco-romana, in grotte e vecchie cave, utilizzate poi sia come cisterne sia, nell’ultima guerra, come rifugi antiaerei. L’escursione però continua con la visita ai resti, sotterranei, del teatro. A Napoli, all’epoca grecoromana, c’erano due teatri, uno all’aperto, di cui forse sono ancora visibili alcuni elementi verso via dell’Anticaglia, quello che può sembrare un muro di sostegno tra due palazzi: secondo alcune ricostruzioni questo teatro doveva avere un perimetro di circa 150 metri, tre ordini di archi e, all’interno, tredici file di sedili. Il teatro coperto detto odeon -òdeon -, era molto più piccolo e sembra che fosse affiancato all’altro. Entrambi erano alle spalle del tempio dei Dioscuri.

Per accedervi, la guida conduce i visitatori in un locale al piano stradale, un basso, una volta abitato, e all’interno, aperta una botola sul pavimento, si scende di pochi metri e ci si ritrova in un altro mondo. Resti del grande teatro all’aperto, pareti, muri,colonne e perfino le gradinate non risultano essere abbattute, ma incorporate negli edifici costruiti sopra e che ancora oggi esistono, nascoste nelle cantine, o semplicemente dietro stucchi e pareti imbiancate.

In questi teatri si era esibito anche l’imperatore Nerone, che si reputava un grande cantante e non perdeva occasione per esibirsi con la cetra davanti a senatori e cortigiani. Come scriveva Tacito,“ .. aumentava di giorno in giorno in Nerone il desiderio di calcare le scene….Fino a quel momento aveva cantato soltanto in casa o nei giardini…..tuttavia non osò la prima volta esibirsi a Roma e scelse Napoli come città greca…” dove attori e cantanti – cosi si diceva- erano più apprezzati e godevano di un pubblico entusiasta”.

Così nascono i luoghi comuni: questo è quello del pubblico napoletano, caloroso e pieno di vita.

“La folla, convocata apposta, accorse anche dalle città vicine, trasformando il teatro in una bolgia maleodorante..... Il principe si esibì - riferisce l’altro storico romano, Svetonio – spesso, per parecchi giorni…. Reclutò poi adolescenti di famiglie equestri e più di cinquemila giovani plebei, scelti tra i più robusti….voleva far loro imparare, dopo averli divisi in fazioni, diverse maniere d’applausi ..”. Nei teatri dell’epoca venivano recitate, da attori professionisti, sia le antiche tragedie greche dei classici, sia soprattutto commedie di Plauto, ma avevano grande successo le fabulae atellane , commedie farsesche e spinte, di origine osco-sannita, recitate poi in greco e in latino, con maschere e personaggi fissi, come Maccus, al quale molti autori fanno risalire Pulcinella. Non mancavano, inoltre, aree dedicate, più seriamente all’arte e alla pittura, risalenti anche al periodo greco : doveva esserci almeno una pinacoteca ricca di quadri :”… Ne vidi alcuni di mano di Zeusi , non ancora offesi dal tempo , e non potei toccare senza un brivido di venerazione alcuni schizzi di Protogene che gareggiavano in verità con la stessa natura . Con egual venerazione adorai una dea di Apelle.. “ . Chi parla così è Encolpio ,il personaggio del Satyricon, scritto da Petronio consigliere di Nerone, mentre si aggira per la “graeca urbs”, identificabile con Neapolis, in cui si svolge parte della vicenda. Che a Napoli esistessero dipinti in pinacoteche pubbliche e private è confermato anche da altri scrittori. Zeusi, Apelle e Protogene erano pittori greci vissuti tra il V° e IV° sec., dei loro dipinti, però, nulla è rimasto se non qualche scarsa copia di epoca romano-imperiale; sono affreschi,mosaici pavimentali e pitture parietali, che raccontano miti e storie greche, con le quali personaggi di classi elevate facevano decorare le proprie domus e le villae.

In epoca imperiale, Napoli e dintorni, Sorrento , Capri, Baia, Posillipo, ( pausilipon, sosta al dolore ), era stata destinata a luogo di piacere e di otium, e di villeggiatura, molte villae erano disseminate lungo la costa. Un esempio è costituito dalla villa di Vedio Pollione, a Posillipo, le cui rovine sono oggi in parte visibili e in parte sommerse. Lo storico Strabone, parlando di Napoli e delle origini, dice che in quella città si vive alla maniera greca: che significava per i romani, dedicarsi alla cultura , all’arte e al riposo della mente e dell’anima. Anche questo potrebbe far pensare alla nascita di un altro luogo comune, ai napoletani scansafatiche, stanchi…. Doveva essere un luogo veramente bellissimo,che oggi è scomparso.

Papinio Stazio, poeta napoletano del sec. scriveva alla moglie per convincerla a trasferirsi a Napoli da Roma: “…..la nostra Partenope non è né povera di abitanti suoi propri né priva di forestieri…..il suo clima è temperato, con tiepidi inverni e fresche estati, un mare tranquillo la lambisce con le sue languide onde. Regna in questa zona una pace serena, l’ozio di una vita di riposo e la quiete non subiscono turbamenti e si dormono lunghi sonni…non esiste la vita rabbiosa del foro né ci si appiglia alle leggi per litigare. I cittadini fondano i loro diritti soltanto sui costumi e la giustizia regna senza bisogno dei fasci( i fasci littori erano le insegne dei magistrati). E che dire ora dei magnifici panorami e delle bellezze di questi luoghi, dei templi e delle piazze adorne di innumerevoli colonne e della duplice costruzione dei nostri teatri, quello all’aperto e quello chiuso ?….a che lodare la bellezza della costa, la libertà di vita cara a Menandro, in cui si sposano la dignità romana e la permissività greca? Tutto attorno abbondano i divertimenti, che rendono varia la vita……”. Proprio come oggi! E perfino il panorama è cambiato!.

Siamo arrivati in via S.Gregorio Armeno, dove si sprecano negozi e negozietti e bancarelle che espongono tutto l’anno i “pastori “, le statuette per il presepio napoletano e il sughero e altro oggetti per turisti. Oggi gli artigiani non si limitano a rappresentare i personaggi caratteristici del presepe,ma anche quelli più moderni e comunque legati a Napoli, Totò, Eduardo e Maradona, ma anche politici. S,Gregorio Armeno è uno dei cardini più importanti della città; era detto anticamente- secondo alcuni autori – Nostrano, e poi S.Liguoro: secondo Gennaro Aspreno Galante, nel libro dedicato alle Chiese di Napoli, l’armeno “Chrigour” si deformò prima in Liguoro e poi in Gregorio, mentre Nostriano fu vescovo della città nella metà del V secolo. La strada è sempre piena di turisti in qualsiasi periodo dell’anno, in cerca di colore locale, ma è durante il periodo natalizio che è impossibile transitare per la folla che si accalca. Domenico ci passava da ragazzino con il padre, che era un appassionato costruttore di presepi e ricercatore di pastori speciali, fatti secondo la tradizione. In questa via, si racconta, sarebbe nato nel 272 d.c., Gennaro, il santo protettore della città. A metà strada, scendendo, sulla destra c’è il monastero e la chiesa di S.Gregorio. Anche qui si ricomincia con una storia millenaria, dato che, come abbiamo visto per le altre edifici di questa zone, si racconta che la chiesa fu costruita sulle rovine del tempio pagano di Cerere. Si vedono, infatti, all’interno del chiostro, capitelli di epoca romana.

Sulla fondazione esistono almeno due versioni. La prima attribuisce la fondazione addirittura a Elena, la madre dell’imperatore Costantino, quello celebrato dalla Chiesa, perché emise il famoso editto di tolleranza per i cristiani. L’altra versione invece comincia da Costantinopoli: nell’VIII sec. l’imperatore Leone III aveva dichiarato la guerra al culto delle immagini sacre, e la persecuzione di coloro che rifiutarono di obbedire, compreso una parte del clero e il papa di Roma. Un gruppo di monache greche e armene dell’ordine di S.Basilio, riuscì a fuggire in Italia e, riparate a Napoli, fondarono il monastero e la chiesa, conservando le reliquie di S.Gregorio. L’interno della chiesa è tutto decorato in legno e oro e in puro stile barocco; una sola navata con quattro cappelle laterali, e una abside sormontata da una cupola decorata da Luca Giordano. Nella cappella a destra della navata sono conservate le reliquie della santa Patrizia, in un reliquiario in oro e argento. Impossibile scattare fotografie poiché si viene immediatamente richiamati all’ordine da una vecchietta che nulla sembra qualificare come custode.

Uscito dalla chiesa, sull’angolo della via laterale, c’è l’ingresso del monastero, un cancello arrugginito si apre elettricamente su chiamata, a destra si entra in un vestibolo dove una suora ci fa accedere nel chiostro. Il chiostro, con il solito porticato, è circondato da edifici altissimi e terrazze dalle quali probabilmente si vede ma non si è visti: sulle terrazze si affacciano gli alloggi a terrazza delle monache, sistemati così quando,dopo il Concilio di Trento e in piena controriforma, furono imposte nuove regole monastiche. Al centro alberi e piante e una grande fontana marmorea.

Ormai a metà strada, scendiamo fino ad arrivare all’angolo con Spaccanapoli, che in realtà si chiama via S.Biagio dei Librai, data la presenza in questa strada di antiche famose librerie. A sinistra, ci si avvia verso via Duomo e Forcella; c’è un antico negozio con tanto di insegna: “Ospedale delle Bambole”, lì da sempre, ma chi sa se ancora oggi viene usato per la riparazione di bambole e simili o è lì solo per folclore! Con passo spedito si va avanti, risalendo verso il decumano maggiore, per arrivare a Castel Capuano. ( chi vuole, può leggere su questo blog, “Porta Capuana”).

martedì 6 settembre 2011

DAP( seconda parte)



La foto è tratta da “Sorvegliare e punire-nascita della prigione-“ di Foucault, e mostra il sistema panottico di un penitenziario, ideato da J.Bentham (1748/1832), filosofo ed economista inglese.

Nel 1975, con la legge n. 354, venne finalmente varata la riforma penitenziaria, di cui si era iniziato a parlare già nell’immediato dopoguerra: erano passati quasi trentanni e non si contavano più le rivolte nelle carceri e morti e feriti tra detenuti e operatori.Veniva sancito il rispetto dei diritti previsti dalla Costituzione e il principio della funzione rieducativa della pena, venivano istituite le misure alternative e i permessi, veniva creato il ruolo dell’educatore e dei servizi sociali.

Ma nulla veniva detto per la Direzione Generale. Qualcosa però, era già cambiato, nella forma, come succede spesso: non era più la Direzione delle carceri, ma degli “istituti di prevenzione e di pena”.

La mia vicenda professionale iniziò sostanzialmente con questa legge: all’epoca la Direzione generale era lì, a Roma, in via Arenula, al 1° piano, retta dal direttore generale Giuseppe Altavista. Collaboravano con lui altri magistrati e funzionari, tra i quali soprattutto voglio ricordare Minervini, capo della segreteria, poi assassinato dalle brigate rosse, e De Gennaro, l’autore della riforma, anche lui sequestrato dalle stesse brigate. Erano uomini d’altri tempi, con i quali bastava una telefonata per chiarirsi e trovare soluzioni, persone per bene,…che ti fregavano lo stesso, ma con discrezione e con eleganza, quello che li salvava era la correttezza e la buona educazione. La Direzione generale si componeva di 10 uffici, da quello del personale e quello degli agenti di custodia, a quello dei detenuti, da quello dei minori, a quello del servizio sanitario, dall’edilizia alla acquisizione di beni e servizi. La Direzione generale, all’epoca e fino ai primi anni ’80, costituiva la casa comune, dove tutti potevano accedere, anche senza preventiva e specifica autorizzazione, e ti capitava di incontrare nei corridoi e di fermarti a parlare in maniera informale con il direttore generale.Presso la Direzione generale trovavi di tutto, personale amministrativo penitenziario, educatori, direttori, contabili, operai,perfino agronomi, tutti romani o comunque felicemente distaccati a Roma, agenti di custodia che facevano gli impiegati, personale giudiziario, cancellieri, segretari giudiziari, gli inutili ufficiali degli agenti di custodia.Gestire il passaggio tra il vecchio e nuovo sistema penitenziario non era facile, anche dopo l’emanazione del regolamento del 1976, la Direzione generale provava con continue circolari a fornire interpretazioni e risposte ai vari quesiti, spesso emanando provvedimenti anche “ anomali”. E’ dei primi anni’80 quello emesso in occasione di uno sciopero dei direttori – erano i primi scioperi di questa categoria – con il quali li si sostituiva con i… marescialli! Per non parlare dell’obbligo della reperibilità imposto, senza alcun compenso, ma solo perchè insito nel ruolo, con un fonogramma- così all’epoca si chiamavano i messaggi trasmessi per telefono, oggi nell’epoca di internet fanno ridere, – dal singolare contenuto, del 9 ottobre 1979 n.57.

Si avvicinavano tempi difficili, terrorismo, criminalità organizzata, oltre alle croniche emergenze del sovraffollamento e il fenomeno dei suicidi – che non è un fatto di oggi -, e la Direzione generale emetteva le solite circolari, raccomandava attenzione,emanava disposizioni spesso inapplicabili, e in generale, non sapeva come risolvere i problemi.Nei periodi bui del terrorismo, della criminalità organizzata, delle morti e delle evasioni continue, si è pensato alla sicurezza, sono arrivati provvedimenti e fondi per la costruzione di nuove carceri, con i relativi scandali ( chi ricorda le carceri d’oro ?), e, per le emergenze, il solito ricorso a quello che oggi si chiama “commissario straordinario “, da trovarsi fuori dalla organizzazione. Quella volta,i signori magistrati della direzione generale dovettero accettare e imporre ai direttori le carceri speciali, affidate ai carabinieri del generale Dalla Chiesa, che, a sorpresa e senza preavviso, in una notte, prelevarono e trasferirono detenuti da un posto all’altro in spregio ad ogni elementare diritto umano e legale. Presso la Direzione generale nulla cambiò, salvo due cose: il trasferimento degli uffici presso una struttura distaccata, alla periferia di Roma, allora quasi irraggiungibile, dove è ancora oggi, e nel 1983, dopo la uscita di scena di Altavista e il rapido passaggio di un tale Sisti, già contestato procuratore della repubblica a Bologna nell’anno della strage alla stazione, l’insediamento di un nuovo direttore generale, Niccolò Amato.

Siciliano, P.M. in uno dei tanti processi per l’omicidio di Aldo Moro, personaggio egocentrico, esagerato, carrierista e arrogante, gran comunicatore e approfittatore del ruolo assegnatogli, protetto dalla politica del tempo, e in particolare dal PSI di Craxi, riuscì a portare le carceri al centro dell’attenzione dei giornali, della società e della politica. Egli durò in carica 10 anni. Con lui cambiarono quasi tutti i magistrati della direzione generale, e non in meglio: chi non era d’accordo - ed erano tanti - dovette andarsene, e finì l’epoca del contatto diretto tra centro e periferia, diventò difficile non solo l’accesso agli uffici romani, ma perfino telefonare e avere una risposta. Ci furono cambiamenti anche a livello di personale addetto, con una particolare predilezione per l’elemento femminile, naturalmente quello esteticamente migliore e più disponibile, di cui Amato amava la compagnia anche durante le sue trasferte e i convegni. Ricordo la telefonata di una collega che lasciava un numero telefonico ai direttori, al quale chiamare per riferire su eventuali problemi non affrontati e non risolti da altri uffici, in sostanza si trattava di far la spia.Il mutamento lo si vide anche dalla forma delle circolari, fino ad allora erano state impersonali, parlava la Direzione generale, dopo invece, con Amato, parlava lui..” io ho disposto, io ho detto, io ho fatto…ecc…”. Questione di stile!

E si accentuò la mentalità inquisitoria contro i direttori e venne incentivato il ricorso alle lettere anonime e alle Procure chiamate a indagare su ogni cosa: non porto esempi personali, ma a quale collega non è capitato di essere denunziato da chi invece avrebbe dovuto proteggerti. E quando non si riusciva a trovare responsabilità, si ricorreva a un trasferimento o a un tentativo di trasferimento, perché questi signori, sapendo di non poterlo imporre e avendo paura di ricorsi al TAR, agivano subdolamente senza avere il coraggio di dire apertamente che devi andartene perché l’ambiente non è più favorevole, scegliti una sede e vai. Quando voleva trasferirmi per forza, inserendomi in un giro con altri colleghi, fui chiamato a Roma dal capo del personale,Luigi Daga, al quale poi fu intitolato il largo davanti all’ingresso, che attesi dalle nove di mattina alle due del pomeriggio, e mi fu ambiguamente proposta, senza spiegarmi almeno il perché, una sede in Lombardia, che educatamente rifiutai. Come se non avessi parlato! Con un fax si disponeva l’immediato movimento a tre: solo che di immediato non c’era niente, nessun collega voleva muoversi, e nessuno volle sentire le mie ragioni. A quel punto dovetti far intervenire la politica: prima i politici locali e perfino un ambasciatore, poi il sottosegretario alla giustizia, che pose fine alla questione. Gli anni ’80 erano pieni di progetti, convegni e interventi sulle carceri. Ci si era accorti che: “ i problemi del carcere non si risolvono solo dalla parte dei detenuti; una delle ragioni della mancata attuazione della riforma del 1975, sta proprio nell’aver omesso di considerare il ruolo del personale, dagli agenti di custodia ai direttori …,.. è sbagliato ogni approccio al carcere che trascuri gli altrettanto gravi problemi del personale …”.(L.Violante). Qualcuno ipotizzò anche un eventuale ritorno alla situazione prefascista, al Ministero degli interni.

Nel 1986 fu approvata la legge Gozzini, che allargava le possibilità di alternative al carcere. Anche allora c’era il sovraffollamento, che non è una emergenza di oggi. Era, ed è, una costante periodica e le varie amnstie e indulti non hanno mai avuto alcun effetto, le nuove carceri costruite qua e là, spesso sono rimaste inutilizzate e chiuse perché senza personale da mandare. Fui mandato ad “aprire” un nuovo istituto in una città del sud, arrivai sul posto ma era ancora tutto in costruzione, anche se i magazzini erano già pieni di materiale; lavori affidati direttamente senza appalti, dieci agenti a sorvegliare i lavori e le mura, fu assunto anche un medico, regolarmente retribuito, che però non faceva visite poiché non c’era nessuno da visitare. Soldi buttati. Lasciai l’incarico appena possibile. Nel 1987, fu approvata la legge del 27ottobre, n. 436, con la quale al personale direttivo della Amm.ne penitenziaria, venne fatto il regalo di equipararli, come trattamento economico, ai funzionari pari grado della Polizia di Stato, con un salto significativo negli stipendi. Bisognò attendere altri tre anni, il 1990 e la legge 395, che aboliva il corpo degli agenti di custodia e faceva nascere la polizia penitenziaria, per una mini-riforma della Amministrazione; l’art.40 allargava anche al trattamento giuridico, l’equiparazione del personale direttivo e dirigente a quello parigrado della polizia di stato.

L ‘ art. 30 di questa legge sanzionava la fine della Direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena e la contemporanea nascita del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il DAP.

Con la stessa legge veniva aumentato il numero dei dirigenti amministrativi, ciò gettava le basi per quello che i direttori aspettavano da cinquanta anni: la direzione degli uffici ministeriali.Si dette il via a una nuova organizzazione del DAP, diminuendo gli uffici centrali, trasformando quelli rimasti in Direzioni generali, e al posto del direttore generale, il responsabile del DAP venne chiamato “CAPO”.

In periferia, gli ispettorati distrettuali furono sostituiti dai Provveditorati regionali, con a capo dirigenti superiori e/o generali, cessava finalmente la dipendenza gerarchica di direttori dalle Procure della repubblica, si cominciava a pensare a una organizzazione per Aree. Amato venne sostituito appena dopo l’uscita di scena del suo protettore, nel 1993.

Da allora, un tourbillon di magistrati a capo del DAP, segno di tempi politici poco stabili e incerti, alcuni appoggiati provvisoriamente lì perché non si sa dove metterli, durano si e no un anno, il tempo di trovargli un posto diverso, si alternano magistrati noti e illustri sconosciuti, Coiro, Caselli, Margara, Cianci, Capriotti( che già conoscevo), Tinebra, Ferrara, per arrivare all’attuale dott. Ionta. C’è comunque una costante che, – tranne uno –, li accomuna: da Amato ad oggi, essi provenivano e provengono tutti dalle Procure. Infatti la mentalità inquisitoria non li ha mai abbandonati, quasi tutti hanno ragionato con il codice penale a portata di mano. Capitò una volta che durante una telefonata con un magistrato della direzione generale, questi mi faceva presente che quello che stavo facendo poteva costituire reato, al che gli risposi che i direttori, per mandare avanti la baracca, tutti i giorni commettono reati o illeciti. Il soggetto rimase sconvolto. Ebbi poi modo di rifarmi: capitò infatti che egli dovette venire da me e pretendeva la macchina di servizio con relativo autista per recarsi fuori città a una distanza di un centinaio di Km. Per motivi di lavoro. Al che gli feci presente che il direttore non può autorizzare viaggi fuori dal territorio comunale, altrimenti commette reati e illeciti amministrativi. Per queste cose, ci vuole una autorizzazione o della Direzione generale o forse dell’ispettore distrettuale. Lo vidi chiaramente sulle spine. Po, quando fu cotto abbastanza, telefonai all’isp.distr. Giuseppe Zoppi, un grande,che non amava questi personaggi, al quale chiesi l’autorizzazione. E’ lì davanti a te?mi chiese. Si, risposi, e mi diede l’autorizzazione.

Tutti i nuovi Capi del DAP, appena insediati, hanno fatto una sola cosa: un bel giro turistico - uno solo - nelle periferie, per farsi vedere dai direttori. Poi o andavano in pensione, per raggiunti limiti di età, o scappavano ad occupare altre poltrone, o venivano allontanati dal cambio del ministro in carica.

Dieci, ne ho conosciuti, di cui ben sette dal 1994 al 2007, prima di andare in pensione.

(la foto ritrae un murales- sono quattro - dipinto da detenuti con la guida di un artista).

Le riforme, si sa, procedono molto lentamente soprattutto presso il Ministero, dove tuttavia qualche magistrato ha già ceduto il posto a dirigenti amministrativi, come ad es. alla direzione del personale e come vice-capo del Dipartimento, facendo però, qualche volta, rimpiangere quelli che c’erano prima..... Nel cambio,infatti, non si è guadagnato, la mentalità e il modo di lavorare è sempre lo stesso, ma almeno i nuovi dirigenti, provenendo dalle fila del personale direttivo, portano avanti alla politica antiche istanze irrisolte e promuovono iniziative per la loro soluzione. E’ rimasta comunque una ignoranza della geografia della penisola, nel senso che da Roma ti mandano da Trieste a Trento, ad esempio, pensando che sono vicinissime e ignorano che tra le due città ci sono circa 4oo Km., oppure che quando dissi a un collega che avrei gradito una sede vicino Napoli, mi propose di andare a ….Matera!

Nel 1998 si faceva strada una ipotesi di assegnare a quei direttori, più anziani, che già percepiscono stipendi dirigenziali, in base ala legge dell’87 e all’art.40 della 395/90, qualifica e funzioni dirigenziali e attuare una forma di mobilità di questi, verso istituti di maggiore livello. L’ipotesi era da condividere, dal momento che avrebbe risolto almeno in parte quelle confusioni di ruolo e di funzioni, ma soprattutto sarebbe avvenuta a costo zero. Ovviamente le riforme a costo zero trovano consensi solo a parola, ma scontentano molti e perciò non se ne fece nulla, anzi, nel 1999 l’art 40 della legge 395/1990 fu abrogato con la legge finanziaria, e il personale direttivo e dirigente rientrò nel comparto statali e quindi contrattualizzato, pur mantenendo quegli stipendi maturati. I tempi tuttavia sembravano maturi per una riforma globale che partendo dal basso e coinvolgendo tutto il personale sia di polizia penitenziaria , sia amministrativo, potesse arrivare a una conclusione, i nuovi contratti nazionali prevedevano anche scivolamenti verso livelli superiori e quindi altre spese.

Si susseguono perciò provvedimenti urgenti tesi a migliorare e modificare l’assetto organizzativo e amministrativo del Dipartimento, dal 1999 il D.Lgs del 30 luglio, nel 2000, il n. 146 del 21 maggio, i D.M. 22/1/2002, la Legge, cosiddetta Meduri, n.154 del 27/7/2005, che fa rientrare tutto il personale direttivo nell’ambito pubblico e li parifica di nuovo alla P.S.: la creazione del ruolo dei commissari della polizia penitenziaria, corsi di riqualificazione e passaggio a livelli superiori per tutto il personale fermo al 7° e 8° livello, con relativi aumenti di stipendio. Per buttare via soldi, inoltre, e trovare posto a qualche funzionario, vene inventata una rivista mensile: “Le due città”, alla quale era fatto obbligo al personale di sottoscrivere l’ abbonamento. La rivista celebrava, e continua a farlo, il DAP e mostra galere bellissime, dove tutti appaiono motivati e felici, compresi i detenuti.

Nel 2000 , con il governo di centrosinistra, veniva emanato un decreto ministeriale che prevedeva l’istituzione di sedi dirigenziale di 1° livello, mentre il successivo governo di centro destra, dovendo dimostrare di essere migliore, estendeva a tutti gli istituti la qualifica di sede dirigenziale.

Nel 2005, la politica di centrodestra regalava la legge n.154 del 27 luglio , che è veramente un regalo ed anche molto costoso, perché tutti, ma proprio tutti, venivano promossi dirigenti di primo o secondo livello, anche quelli che non hanno mai diretto niente. Le conseguenze di questa legge sono quelle di parificare tutti i dirigenti penitenziari ai funzionari delle prefetture e della polizia di stato sia nel trattamento economico sia giuridico, con contratto separato. Va bene lo stipendio e gli straordinari, va bene anche i giorni di ferie, di più rispetto agli altri statali, ma quando si è trattato di applicare la norma che prevede il trasferimento per i funzionari che si presentano alle elezioni, e non sono eletti, il DAP ci ha solo provato facendo marcia indietro alla prima protesta.

Attualmente il DAP è organizzato in appena 5 Direzioni generali, oltre all’ufficio del Capo e all’istituto superiore di studi penitenziari, poi le Scuole della polizia penitenziaria – in via di Brava-, tutte strutture per le quali sono stati ricevuti e spesi miliardi - a capo delle direzioni generali vengono posti dirigenti generali o magistrati, i quali non intendono ancora rinunziare a incarichi dirigenziali. Magistrato è ancora il capo del Dipartimento, mentre dei due vice capi, uno è dirigente amministrativo. L’attuale capo del DAP è anche commissario per le emergenze, che non mi sembra siano risolte. Si era fatta l’ipotesi delle carceri galleggianti, ma a mio parere, è una vera cavolata. Sembra comunque che ci sia un “piano carceri” che prevede la chiusura di alcuni istituti piccoli, fatiscenti e inutilmente costosi.

La verità, a conclusione di questo intervento, è che le galere sono state e continuano ad essere, salvo brevi periodi, le cenerentole dello Stato. I fondi destinati alla giustizia sono stati sempre gli avanzi, in particolare poi, quelli per l’area penitenziaria sono gli avanzi degli avanzi. L’amministrazione penitenziaria ha dovuto e deve fare i conti con l’ opinione comune delle persone cosiddette per bene, che ragionano con la pancia , che vogliono stare tranquilli e “ chi se ne frega di quelli che se stanno dentro hanno fatto qualcosa e che hanno anche la televisione, e guadagnano soldi, mentre fuori ci sono i disoccupati”. Le stesse persone ci hanno ripensato quando in galera ci sono finiti , e ci finiscono ancora, loro, i politici, gli imprenditori, i colletti bianchi, sia ai tempi di tangentopoli sia oggi, quando questi, che mai si erano occupati di carcere, hanno cominciato a scrivere le lettere e hanno illustrato come si sta.

Oggi il DAP è chiamato a risolvere il problema del sovraffollamento, di cui si parla, ma solo d’estate quando la politica è in ferie, e solo per merito dei soliti radicali. Il sovraffollamento non è una novità, ma una costante periodica, risolta spesso con amnstie e indulti, l’ ultima del 2006 se non sbaglio e ha, come per il passato, solo alleggerito provvisoriamente il problema. Forse non è ancora chiaro che, da punto di vista tecnico, il sovraffollamento dipende dal funzionamento della giustizia penale, che come è noto, è lento e farraginoso: più del 50% dei detenuti presenti è in attesa di giudizio e non è chiaro, per anni, se saranno condannati a una pena definitiva. Altri, molti, invece di essere associati alle carceri, dovrebbero essere trattenuti, al momento dell’arresto, in camere di sicurezza presso questure e comandi di forze dell’ordine, che spesso non ci sono. La commistione, poi, nella stessa casa circondariale, di detenuti in attesa di giudizio e condannati, crea affollamento e soprattutto disparità di trattamento: sarebbe perciò necessario una netta separazione tra le due categorie. Parlare infine di nuove carceri- quando ce ne sono tante da chiudere e altre nuove e mai utilizzate -, e addirittura di quelle “galleggianti”, non risolverebbe nulla, la soluzione spetta alla politica e a un serio programma di interventi legislativi.

Ma l’argomento richiede più spazio e non rientra in questo intervento, forse se ne potrà parlare un’altra volta.