giovedì 15 novembre 2012

la tavola Strozzi


La tavola Strozzi  è un olio su  “tavola”,  di 82 x 245 cm, rinvenuta nel 1901, a palazzo Strozzi, a Firenze.

Sin dal suo ritrovamento, si svilupparono dibattiti e diverse interpretazioni. L’unica cosa certa era costituita dal fatto che la tavola rappresentava la città di Napoli.

Alcuni studiosi, tra i quali anche Benedetto Croce, la interpretarono come una rappresentazione del trionfo navale in onore di Lorenzo de’ Medici, andato a Napoli nel 1479, per stipulare un trattato di pace con il re Ferrante d’Aragona.

Secondo un’ altra interpretazione, ritenuta poi storicamente più attendibile, e  accolta dalla maggior parte degli studiosi (e dallo stesso Croce, che riconobbe il suo errore) si tratterebbe invece del rientro trionfale della flotta aragonese dopo la vittoria riportata contro il pretendente al trono Giovanni d’Angiò, avvenuta al largo dell’isola d’ Ischia il 7 luglio 1465.

In origine, la tavola, secondo gli storici dell’arte, era la spalliera  di un letto disegnato da Benedetto da Maiano, toscano ( 1442/1497), architetto e scultore soprattutto di legno intagliato.

 Il dipinto sulla tavola, invece, fu datato tra il 1472/1473,  e si è  ritenuto che sia giunta a Napoli in quell’anno, insieme ad altri doni di Filippo Strozzi al re Ferrante d'Aragona.

Sull’autore della tavola ci sono stati molti dubbi e diverse attribuzioni, ma ne parleremo più avanti. Ora,  non guastano alcune brevi notizie sul periodo storico.

Il regno di Napoli e Sicilia, regnum utriuusque Siciliae, regno delle due Sicilie, era stato fondato nel 1130  da Ruggero II, il Normanno, con capitale Palermo e comprendeva oltre la Sicilia, tutta l’Italia meridionale fino ai confini con lo Stato pontificio.

Il regno normanno  passò  poi all’ l’imperatore Federico II, nipote di Ruggero, e poi per ultimo al figlio Manfredi e quindi al nipote Corradino, sconfitto a Tagliacozzo nel 1267 da Carlo d’Angiò che diede inizio alla dinastia francese degli angioini.

La capitale fu trasferita a Napoli, nel 1282, quando i Siciliani si ribellarono – i Vespri siciliani – e chiamarono in aiuto Pietro d’Aragona, che vantava sulla Sicilia diritti di eredità, avendo sposato una figlia di Manfredi, e nell’isola si formò un regno distaccato da Napoli sotto gli spagnoli Aragona.

Nel 1441, Alfonso d’Aragona, già padrone della Sicilia, assediò Napoli, dove regnava Giovanna II d’Angiò, e, con uno stratagemma, attraversando un antico acquedotto oramai in disuso, riuscì a penetrare in città e a conquistarla, riunificando di nuovo il regno.

Il re Ferrante, figlio di Alfonso, era salito al trono nel 1458: egli non era ben visto, il suo regno fu insidiato dai nemici esterni e dal malcontento interno.

I suoi nemici interni, i baroni, si erano collegati con quelli esterni, che facevano capo a Giovanni d’Angiò, discendente della casata angioina e pretendente al trono; e lo avevano chiamato in aiuto per prendere il comando  della rivolta, nel 1459.

La lotta durò più di cinque anni e malgrado i successi contro gli insorti, c’erano ancora sacche di resistenza: l’angioino si era rifugiato con i suoi seguaci nel castello dell’Isola d’Ischia.

Il regno meridionale era, all’epoca,  il più grande e più potente della penisola oltre ad essere l’unico regno, dal momento che gli altri stati italiani non avevano questa qualifica: i territori più grandi dopo quello potevano essere  la repubblica di Venezia e lo Stato del papa, mentre Lombardia e Toscana erano piccole realtà ducali e i Savoia  erano solo una ignota famiglia di una lontana  contea, in mezzo alle Alpi.

Giovanni d’Angiò si era rifugiato nell’isola d’Ischia, nel castello detto aragonese, ( Vedi il castello aragonese in  storia e storie blog spot oppure su artericerca.com), l’isola fu presa d’assalto e occupata. Il pretendente angioino, abbandonato il castello, fu sconfitto in una battaglia navale proprio nei pressi dell’isola, nel 1465.

Il regno Aragonese durò poco, sessant’anni, fino al 1503, quando tutto il territorio passò sotto il dominio diretto della Spagna.

 

Secondo gli studiosi, è all’episodio della battaglia navale a largo di Ischia, che si ispira l’autore della tavola, illustrando il rientro della flotta nel porto di Napoli, dopo la vittoria.

La paternità della tavola è dubbia  - si era fatto anche il nome di Leonardo da Vinci – ; sarebbe stata dipinta, con qualche dubbio, nel 1472, un periodo tranquillo dopo la tempesta di lotte interne e guerre esterne, per il regno e il re Ferrante.

Il dipinto è stato  attribuito invece a Francesco Rosselli, (1448-1513),un modesto e semisconosciuto pittore toscano,  più noto come incisore e cartografo, autore tra l’altro di altre opere analoghe come la veduta di Firenze detta della Catena, e di Palazzo Medici , che è considerato il primo esemplare nella storia della cartografia che rappresenta una città,  con tutti i suoi edifici e le strade e le piazze, a “ volo d’uccello”.

Altri, convinti che una simile opera doveva essere per forza di chi era di e a Napoli e, perciò,  conosceva molto bene la città, hanno parlato di un tal Francesco Pagano, pittore  napoletano di cui non si hanno molte notizie, o anche di Colantonio,  altro pittore vissuto alla corte degli Angioini e poi degli Aragonesi.

Comunque sia, la tavola offre all’autore l’ opportunità di  fornire l’immagine della città, dal mare, e se veramente era un dono rivolto al re, non c’è dubbio che era stata composta per celebrarne il potere, il governo e le vittorie.

I tanti studiosi dell’opera su una cosa sono d’accordo: l’opera non ha un grande valore pittorico, ma ne ha sicuramente uno storico, in quanto mostra l’aspetto della città nel XV secolo, la definirei una fotografia della città di quell’epoca.

In primo piano si vede  il lungo corteo delle navi che rientrano in porto. Si notino i particolari: le navi non sono tutte uguali, si vedono vascelli, galee e altre barche.

L’orizzonte  si sta schiarendo e ciò ha fatto pensare a una immagine di un rientro in porto all' alba; si vedono anche uccelli in volo.

Napoli appare, a prima vista, con una grande presenza di strutture militari:  i castelli ( castel dell’Ovo a sinistra di chi guarda, la imponente mole del Castel nuovo ( più conosciuto come maschio angioino, perché costruito da Carlo d’Angiò) al centro, alle spalle, sulla collina, il castello di S. Elmo, più a destra Castel Capuano ( per maggiori particolari vedi  “ Porta capuana” e “il Vomero” su giovanni attinà blogspot storia e storie), la cui mole emerge sulla fitta edilizia circostante.

Il re Alfonso, padre di Ferrante, aveva dato un grande impulso alla ricostruzione di tutti i castelli, trasformandoli in vere e proprie fortificazioni, anche per le nuove armi da fuoco che proprio in quegli anni facevano le loro prime apparizioni.

 In quel periodo infatti la città era messa alla prova – come detto prima - dalle ripetute rivolte baronali, che avevano fatto accantonare i progetti di riordino urbanistico,  concentrando le risorse in opere difensive.

 Il resto della città presenta ancora l’ antica struttura della originaria “polis” greco-romana,  racchiusa nella cinta delle mura con le torri di guardia, tutta situata ad oriente, nel centro, che oggi è detto antico,e si vede a destra di chi guarda la tavola, rispetto allo sviluppo successivo della odierna città. Si vedono anche  edifici religiosi risalenti all’età angioina, in primo luogo S. Chiara e, in basso a destra, sulla spiaggia, vicino alle mura e a una porta, persone che parlano e altre a cavallo.

Sulla sinistra, quasi al centro della tavola, la torre di S.Vincenzo, che era una specie di scoglio poi sotterrato dalle successive modifiche del porto, anch’esso fortificato, per la maggior difesa del porto.

Il Castelnuovo che appare  in primo piano, è rappresentato con minuziosa cura e sono perfettamente individuati e descritti i dettagli edilizi. Si vedono sulla parte orientale le torri di S. Giorgio e quella maestra, in primo piano, che appare più alta di come è ora, detta di ”Beverello”.

Beverello oggi è anche il nome del Molo, posto proprio davanti al castello.

Sono inoltre delineate,  con la massima cura, anche gli altri edifici, civili e religiosi e perfino  il Castello di S. Elmo,  sulla collina.

Non si esistevano  gli attuali quartieri di Chiaia e Posillipo, e  le colline del Vomero, di Posillipo e di Capodimonte,  appaiono verdi per gli  alberi e le piante, occupate solo da poche ville di campagne e piccoli villaggi rurali, mentre oggi sono piene di palazzi e condomini.                                             Da Castel nuovo a sinistra, verso Castel dell’Ovo si vede già un embrione di strada sulla spiaggia che doveva servire da collegamento tra le  fortezze per scopi difensivi:  lì oggi c’è via Partenope.

Malgrado la precisione e la cura profusa dall’autore, alcuni elementi del dipinto non mi sembrano perfetti: parlo delle proporzioni, ad esempio tra le persone, sia a piedi e ancor di più a cavallo rispetto alle mura,  o anche alle navi, mi riferisco al rapporto tra il Castel nuovo e il molo e tra questo e le navi che appaiono minuscole rispetto al resto. Forse perché si tratta di una ripresa dall’alto?

Ed è quì che sono nate anche molte discussioni e ipotesi, peraltro non ancora terminate: dove si era posto  l’autore, quando ha dipinto la tavola?

Gli storici dell’arte sono partiti, per tentare di spiegarsi la tecnica usata dall’autore,  dalla costruzione del faro, detto la Lanterna, eseguita durante il regno di Ferrante d’Aragona, sicuramente dopo la vittoria riportata contro i ribelli, negli anni ’80 del secolo.

La Lanterna, restò in funzione per secoli: la si vede bene nel dipinto ottocentesco di Anton van Pitloo,  e fu abbattuta solo nel 1932,  per far posto a i nuovi lavori di ristrutturazione di tutto il porto e della Stazione marittima.

Come mai questo faro non appare nel dipinto?   Non era stata ancora costruita?  L’autore ha dimenticato di inserirla o c’è un altro motivo?                                            

In base  ai soli elementi disponibili, la visione dall’alto, in un epoca in cui come è noto non c’erano aerei o altri oggetti volanti, e l’assenza della lanterna dal dipinto, qualche studioso – Roberto Taito, disegnatore, pittore e scultore, sul sito: studi di R. Taito sulla realizzazione della tavola Strozzi e sulle tecniche di disegni e dipinti di autori del XV, XVI,XVII secolo  -  ha ipotizzato l’adozione da parte dell’autore di una difficile tecnica di disegno che prevedeva, oltre al punto di vista reale, anche un punto di vista fittizio. 

La tecnica ,  dice, veniva utilizzata per disegnare scene con vista aerea a volo d'uccello quando non si aveva a disposizione una altura da cui osservare completamente la veduta dalla giusta distanza. In tal caso allora si sfruttava un alto edificio facente parte del panorama stesso (una torre, un tetto, un campanile, un faro etc.), e, in un secondo momento, veniva inserito artificiosamente nella veduta stessa. Così si otteneva una bella immagine a volo di uccello molto realistica che dava l'impressione di essere ripresa da un punto di vista aereo e da una posizione molto più arretrata e non meglio identificata proprio perché inesistente.                                                          

Stando a questa interpretazione, l'artista della Tavola avrebbe lavorato dall’alto della Lanterna, completando il dipinto senza inserirla nella veduta. Questo perché egli stava realizzando la ricostruzione storica di un fatto avvenuto alcuni anni prima, quando la Lanterna ancora non era stata ancora costruita. La Lanterna fu costruita tra gli anni 1481/1487, lontano quindi dagli avvenimenti dipinti nella tavola: di conseguenza anche la data della sua composizione, fissata, come si è visto al 1472/1473,   sarebbe spostata di almeno 10 anni dopo.

Altri documenti e studi si possono trovare sul sito dell’Università degli studi “Federico II°”, Dipartimento di discipline storiche “E.Lepore”, e altri siti che facilmente si possono rintracciare.

Al momento, mi sembra che,  in assenza di dati certi,  ogni ipotesi può essere considerata fondata o infondata, ma resta comunque teoria.

 Al di là di tutto questo, quel che è certo  della tavola, è  l’ indubbio valore storico dell’ immagine quattrocentesca della città di Napoli.

 





 

 

 

lunedì 5 novembre 2012

m'hai provocato e io te distruggo


Con queste parole, Alberto Sordi, nel film “ Un americano a Roma “ del 1954, dopo essersi sforzato di mangiare  latte, marmellata, senape e altri generi che per il personaggio rappresentano l’alimentazione tipica  statunitense,  guarda il bel piatto di spaghetti già pronto e lo divora. Chi non ha visto questa scena. 

E chi non ricorda la scena del film “Miseria e nobiltà”, anche del 1954,  con Totò – a fianco al quale lavoravano due giovanissime attrici che diventeranno famose: Valeria Moriconi  e una certa Sofia Loren  -, che, insieme agli altri personaggi mangiano gli spaghetti con le mani!

Cito solo questi due film perché sono i più conosciuti e i più trasmessi dalle TV nazionali e locali, ma ce ne sarebbero tanti altri, perfino americani dove la cucina italiana è identificata con spaghetti e polpette. Quei film rispecchiano la realtà e danno l’immagine di cosa sono gli spaghetti  nel nostro paese: l’alimento più importante ma soprattutto il piatto nazionale.

“….quando scocca l’ora del pranzo, -  C. Marchi, Quando siamo a tavola, viaggio sentimentale con l’acquolina in bocca,  da Omero al fast-food, ed. Rizzoli 1990 -, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della penisola si riconoscono italiani, come quelli d’oltre manica, all’ora del the, si riconoscono inglesi”. E non solo Spaghetti, ma anche spaghettini, linguine e trenette, penne rigate e lisce, rigatoni, linguine e fusilli, vermicelli e bucatini, farfalle e conchiglie, sedani e orecchiette, tubetti e tanti altri formati,  almeno una novantina, e poi la pasta fresca,  gnocchi, fettuccine, lasagne, tortellini e altre paste regionali che oggi non sono più tali, perché si trovano dappertutto.
 Tutti hanno dato il loro contributo all’ Italia, alla sua unità, e anche a “ fare gli italiani ”. Non era precisamente quello che voleva – o che intendeva - il piemontese  Massimo D’Azeglio,  quando a suo tempo, fatta l’Italia, disse questa cosa, però…,…..

Aldo Cazzullo, piemontese di oggi , giornalista, nel suo libro “ l’Italia de noantri” dice:” gli italiani oggi mangiano le stesse cose, eppure non soltanto i nonni non mangiavano la pizza, ma ancora due generazioni fa in Piemonte erano in pochi a mettere a tavola gli spaghetti”.

E proprio il Piemonte che conquistò, nel 1860, il regno del sud, è stato poi conquistato  dagli spaghetti sudisti; parafrasando una nota frase di Orazio, il poeta romano, si potrebbe dire che: “ Neapolis (Graecia) capta, ferum  victorem cepit……”, e la pasta portò nel rustico Piemonte.

Spaghetti e altri formati di pasta, lunga e corta, secca e fresca, già da qualche anno inondano i supermercati italiani, sono presenti almeno due o tre aziende produttrici di pasta, e oggi li trovi anche all’estero. Devo ricorrere per forza ai film di Totò per ricordare la scena di “Totò,Peppino e la malafemmina” : giunti  nell’albergo di Milano dal paesello del sud, Totò e Peppino, i fratelli Capone, tirano fuori dalla valigia, oltre a salumi, formaggi e galline, gli spaghetti, la pasta “bianca”, perché convinti che a Milano non l’avrebbero mai trovata.

Ma perché il nostro paese, e specialmente il sud, è stato identificato con la pasta, perchè siamo definiti  “ maccaroni”,  e che storia c’è, dietro?

L’inizio di tutto questo è lontano nel tempo, e anche qui  ci sono invenzioni, ipotesi e leggende e anche un po’ di storia.
Intanto bisogna subito chiarire che spaghetti, maccheroni e simili non sono nati a Napoli, come si vorrebbe far credere, anche se poi l’area napoletana e/o campana è stata identificata come quella di maggior produzione e consumazione.





Sulla origine della pasta, proprio in quella città si raccontava una favoletta: ” C’era una volta, a Napoli, un grande mago che stava  giorno e notte in casa, e studiava e leggeva antichi libri magici. Egli trascorreva intere giornate e anche notti, davanti a una pentola in ebollizione, e  tutti si chiedevano cosa faceva, ma nessuno riusciva a sapere niente. Ma la sua vicina di casa, tale Jovannella, però,  decise di mettersi d’impegno e cominciò a spiarlo:  così guarda oggi e guarda domani, osserva di giorno e osserva di notte, alla fine, un bel giorno, capì tutto il segreto e decise di approfittarne. Per diventare ricca e potente, si presentò al re e  chiese di potergli cucinare una nuova  pietanza di sua invenzione.  Il re, incuriosito da queste parole, l’autorizzò, e allora Jovannella: ” prese prima fior di farina, lo impastò con poca acqua, sale e uova, maneggiando la pasta lungamente per raffinarla e ridurla sottile come una tela. Poi la tagliò con un coltelluccio, in piccole strisce, le arrotolò in forma di piccoli cannelli e fattane una gran quantità, essendo morbidi e umidicci, li mise ad asciugare al sole”.  Quando finalmente mangiò questi “ piccoli cannelli” essiccati e conditi , il re ne fu entusiasta e premiò  Iovannella. che  diventò ricca  insegnando la ricetta della pasta al cuoco del re e ai cuochi di tutti i nobili del regno. Al povero   mago, vistosi scoperto, non restò altro che scappar  via da Napoli e di lui non si seppe più nulla”.  Un raccontino  ingenuo e superficiale , ma nato per far credere che la pasta era stata inventata a Napoli.
Fino a qualche tempo fa si credeva che la pasta avesse una origine cinese: scavi archeologici  avevano trovato, in una zona della  Cina,  sotto alcuni metri di terra e sedimenti, una pentola con dentro una specie di spaghetti, fatti con acqua e miglio, databili tra i 4000 e i 2000 anni prima di Cristo.  Dalla Cina, secondo alcuni , fu Marco Polo a portarli e a farli conoscere in Italia e in Europa. Altri asserirono che il veneziano non c’entrava niente e che quella ipotesi era solo una invenzione commerciale o, nel migliore dei casi, un equivoco,  dovuto al fatto di definire  pasta, come la intendiamo oggi noi, qualsiasi prodotto fatto con acqua e farina di un qualsiasi cereale. Il prodotto, cosi inteso genericamente, era usato in tutto il mondo da millenni data la semplicità della preparazione.
 “ Impastare”, che è il significato originario da cui deriva poi la parola pasta, secondo gli studiosi, è una operazione che possiamo far risalire fin quasi all' età neolitica,  quando l'uomo, in Cina come in Europa e altri continenti, iniziò la coltivazione dei cereali e che, poi, imparò a macinare, impastare con acqua, e cuocere o seccare al sole, per poterli conservare a lungo.
Per questo motivo, si dice,  quegli spaghetti cinesi devono essere considerati indipendenti da altri tipi di pasta compresa quella occidentale, di cui si trovano tracce già tra  Etruschi,  Greci, Romani e Arabi..
Nella  Grecia antica, l’impasto di acqua e farina veniva chiamato “laganion” che indicava, secondo qualcuno, le nostre lasagne, ma per altri una pasta sfoglia, o una larga e sottile focaccia con farina, miele e olio.
Dai Greci delle colonie del sud Italia, arrivano a Roma le “lagane”, e, anche quile interpretazioni sono diverse: per alcuni più semplicemente lasagne e, per altri invece, così come indicate nel vocabolario Calonghi, come frittelle o pizze. “Inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum”, il poeta Orazio così descriveva la sua fine giornata, quando si ritirava a casa e mangiava lagane  con porri e ceci. Anche il più famoso cuoco dell’impero, Apicio,  parla nel suo “de Re coquinaria” di ricette che hanno fatto supporre una ampia conoscenza  delle lagane.
La parola “ lagana”  ancora oggi  indica nel Meridione, per es. in Basilicata, le lasagne, e nel dialetto napoletano – ma anche di altre regioni del sud - la parola “laganaturo” indica il matterello, l’arnese con il quale si stende la pasta per lasagne e altra pasta fresca.
.Per trovare invece qualcosa di più vicino a noi, e alla pasta come la intendiamo oggi, gli storici hanno guardato alla coltivazione del grano duro, e chi è che coltivava grano duro? Tutti i popoli, soprattutto del Mediterraneo, che avevano come base alimentare il pane e il grano, e in particolare gli Arabi. Questi già utilizzavano grano duro con acqua “ facendo lunghi fili essiccati al sole”, che potevano essere conservati, portati nei loro spostamenti nel deserto o in lunghi viaggi sulle navi, e offrivano l’opportunità di una minestra calda semplicemente buttandoli in acqua bollente e salata”.
Secondo questa teoria, quando nel VII° secolo d.c., gli Arabi conquistarono la Sicilia, portarono con sé anche il grano e la sua coltivazione.
 A riprova di ciò, viene citato Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, che, in un suo libretto  datato 1154,  descrive Trabia, un paese a 30 km da Palermo, come una zona con molti mulini, dove si fabbricava una pasta a forma di fili chiamata “ itrya”, che  significa "focaccia tagliata a strisce", e che veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo, sia musulmano sia cristiano dando origine a un commercio molto attivo.  Quei “lunghi fili essiccati” ricordano tanto vermicelli, spaghetti e simili e ancora oggi a  Palermo si mangiano i  vermicelli di “tria”, una sorta di spaghettoni, nei quali molti vedono un antico retaggio del passato arabo dell’isola..
E’ questa che  viene considerata la nascita della pasta, come oggi la intendiamo. Di lì a poco si faranno strada, in Sicilia, anche i “ macarruni” che indicavano genericamente  – come avviene ancora oggi in Italia meridionale – la pasta corta.
 Dai porti arabi la pasta  secca a lunga conservazione iniziò la sua diffusione in Italia, in primo luogo con le repubbliche marinare, Genova, Venezia, e Pisa. Si iniziò anche a fare vermicelli e maccheroni ad Amalfi e  alle pendici del Vesuvio,  ma gli storici riportano che la produzione maggiore, fino a tutto il secolo XVII, fu e restò in Sicilia.
 Sorsero le prime botteghe per la preparazione professionale della pasta  già a metà del XIII secolo, anche a Napoli e a Genova, città che avranno poi grande partecipazione nell'evoluzione e nel successo delle paste alimentari, poi  anche in Puglia e Toscana e vennero costituite le prime corporazioni di pastai. L’ Emilia Romagna, la Lombardia, il Veneto si dedicheranno invece alla pasta fresca, come fanno ancora oggi.
Nel trecentesco Liber de coquina , scritto in latino, la lingua dotta dell’epoca, veniva spiegato molto dettagliatamente il modo di cucinare le lasagne. Erano lessate e cucinate in bianco, e condite ad esempio con cacio e pepe, una spezia esotica allora molto costosa, poiché il pomodoro arriverà  dopo  la scoperta dell’America del 1492, e sarà sperimentato con la pasta solo nel ‘700.  Si noti che ancora oggi ritroviamo, nella cucina romana, spaghetti conditi con cacio e pepe.
Dal “ Convivio” di M.Montanari,” una raccolta di testimonianze letterarie sulla cultura alimentare, la sua storia e il suo evolversi”,  riporto quanto descritto da  un tal Sabadino degli Arienti (1445-1510), notaio bolognese ma anche scrittore a tempo perso: egli, ne “ le Porretane”, - da Porretta Terme, località termale sita tra Bologna e Firenze, già evidentemente famosa all’epoca, dove un gruppo di giovani  soggiornano e si raccontano novelle sullo stile del Decamerone, -  parla di lasagne “ cum buono caso gratusato…”.
Si consigliava inoltre di mangiarle con "uno punctorio ligneo", un attrezzo di legno appuntito, probabilmente l’antenato della forchetta. In effetti, mentre nel resto d'Europa, per mangiare le lasagne, si useranno le mani fino al XVII-XVIII secolo, in Italia si ebbe una precoce introduzione della forchetta, più comoda per mangiare la pasta scivolosa e bollente.
E citiamo anche il Decamerone, Boccaccio, in una delle novelle – VIII,3 – parlando del paese di Bengodi, dove c’è abbondanza di vini, salsicce e carni e formaggio parmigiano grattugiato “ sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocerli in brodo di capponi…..”.
Nel XV secolo nel Libro de arte coquinaria,  scritto in volgare da un tale  Martino, che doveva essere un cuoco famoso, si trovano le prime indicazioni tecniche per la preparazione dei "vermicelli":  poi piglie de la farina bellissima et impastala con biancho d’ovo et con acqua rosa ecc…..”,  e dei  "maccaroni siciliani" (per la prima volta il termine indica pasta corta forata), e dei "maccaroni romaneschi" ( identificate come una specie di fettuccine). Le ricette dell'epoca prevedevano che la pasta fosse servita anche un po’ scotta, come contorno ad altre vivande e specialmente con la carne, come succede ancora oggi in alcuni paesi fuori dall'Italia, mentre da noi già  cominciava a farsi strada, invece, l’idea della pasta “ al dente”.
Ancora nel XVI secolo, i Siciliani erano chiamati “mangiamaccheroni” e niente faceva pensare che il soprannome potesse venire esteso anche ad altri popoli del sud, calabresi ,pugliesi e soprattutto campani. I napoletani, in particolare erano, invece,  i “mangiafoglie” perché grandi mangiatori di broccoli, cavoli e  comunque di “foglia”, ancora oggi molto usati in quella cucina. Basti pensare che il pranzo “classico” di Natale iniziava con la cicoria in brodo.
“Io mangio i maccheroni? Grida il tipico siciliano del teatro comico del XVII sec., al napoletano rispondendogli: tu mangiafoglie, tu napoletano…, ma siamo già verso la fine del secolo quando nella novella : la Gatta Cenerentola di G.B.Basile, il re, durante un banchetto, chiede, tra le altre portate, da dove arrivano “ …i maccheroni e i ravioli?”.
E’ infatti,  solo alla fine del ‘600 che arrivano i maccheroni nell’area napoletana, anche se già da tempo c’erano pastifici nella zona, ma non a livello di quelli siciliani. Sorgevano pastifici un pò dappertutto, ci sono ancora oggi in Puglia, in Abruzzo, e poi anche al nord, in Veneto e perfino a Trieste, ma non si può ignorare che la Campania, e l’area vesuviana e Gragnano in particolare, ha dato vita a una gamma infinita di capolavori dell’arte pastaia.
Il paese di Gragnano  fu favorito dalle particolari condizioni climatiche, che permettevano la lenta essiccazione della pasta. La grande richiesta  fece si che da allora  i gragnanesi si dedicarono alla "manifattura della pasta".  All’inizio erano pastifici a conduzione familiare, poi vista la grande richiesta si cominciò a lavorare sempre più in grande, fino ai livelli industriali di oggi.
 Dopo il 1860, con l’unità d’Italia, i pastifici gragnanesi continuarono la produzione e iniziarono anche l’esportazione in altre zone dell’Italia, ottenendo addirittura, dicono le cronache, l’apertura di una stazione ferroviaria per  facilitare l’esportazione, e alla inaugurazione erano presenti re e regina d’Italia. Oggi la pasta di Gragnano è la più famosa e la si trova in tutto il mondo.
Gli antichi maccheroni alla napoletana, ma solo per i grandi banchetti offerti a principi e nobili, erano “ di pasta reale fritti con mele et zuccaro sopra” oppure ” cotti nel latte e con butirro et cannella, zuccaro e formaggio sopra”, mentre la plebe dovette  accontentarsi di condire gli spaghetti con solo formaggio “nolano” di Nola, (una specie di pecorino) e mangiarli, per strada, con le mani, presi dal “maccaronaro” venditore ambulante munito di un gran pentolone fumante.
Ma la vera  grande scoperta  fu , nel secolo seguente,  l’unione della pasta con il pomodoro, proveniente dalle Americhe, e impiantato nelle terre del sud con un clima più idoneo e vicino a quello di origine. L’apoteosi fu raggiunta quando al pomodoro, furono aggiunti carne, pesci e molluschi .
I re Borbone erano fanatici della pasta: Ferdinando I° non concepiva un pranzo senza spaghetti, Francesco II era soprannominato “Lasa” perché il suo piatto preferito erano le lasagne, alla napoletana naturalmente.
Quante ricette sono state inventate per la pasta e in relazione ai vari formati e modificate e riadattate secondo le zone, gli ambienti e le epoche.
Le  salse tradizionali classiche, rosse o bianche,  con pesci e frutti di mare e molluschi, sono stati abbinate sempre a spaghetti e spaghettini, vermicelli, linguine e bavette, quindi paste lunghe,  più o meno sottili, che non devono esser spezzati, come mi è capitato di vedere soprattutto in alcune case del nord, e dover purtroppo mngiare;  tranne la famosa pasta con le sarde, siciliano tipico, cucinato con i ziti, lisci.
I sughi con le carni, i ragù e simili, invece sono stati abbinati alle paste corte e grosse, i maccheroni propriamente detti rigatoni, zite, penne di varie misure rigate o lisce, fusilli corti o lunghi eo bucati, paccheri e altre.
Poi secondo le cucine locali si possono trovare i bucatini , lunghi, conditi con l’amatriciana o la classica carbonara , oltre poi a gnocchi, tortellini ravioli, ecc..….
Da qualche anno però le cose sono state cambiate, la nuova cucina ha mischiato le cose, i sughi tradizionali sono stati anch’essi modificati, mescolando ad esempio verdure e molluschi o frutti di mare e combinandoli con diversi tipi di pasta, con risultati interessanti.   
Si è detto che la pasta è un alimento ingrassante, sono state create paste dietetiche e con diversi tipi di farina, ma non è più la pasta tradizionale; poi  si è parlato della cosiddetta dieta mediterranea, nella quale la pasta occupa un posto di primo piano.
Da ultimo, nel mese di ottobra 2012, al salone del gusto di Torino, ai margini del World Pasta Day, è emerso come l’alimento che, se da una parte subisce rincari spesso poco giustificati, dall’altra resta il prodotto alimentare in grado di sfamare al più basso costo, famiglie intere: il che non guasta in tempi di crisi economica.
Il quotidiano che riportava la notizia, così titolava: “la pasta vince il giro del mondo culinario
La pasta tralaltro muove anche le esportazioni: addirittura in Cina, ritenuto come abbiamo visto  e a torto, l’inventore della pasta, le vendite sono più che raddoppiate, per non parlare dei consumatori più appassionati della pasta italiana, cioè tedeschi, inglesi, statunitensi e anche giapponesi, che la cucinano a modo loro e secondo il proprio gusto.
Per finire, riporto di seguito la ricetta del condimento più semplice e sicuramente più conociuto della pasta, i vermicelli aglio, olio e peperoncino, come la si legge in un vecchio libro di cucina di E.Avitabile, “ mangiamo alla napoletana” edito nel 1976:
è uno dei piatti più umili della nostra cucina ma che più si impone per la sua schiettezza, per il suo sapore, per la sua fragranza…” e ancora”….non c’è banchetto di riguardo, o tavolata campagnola, o cena notturna che non si chiuda con un assaggio di questi vermicelli.E’ il biglietto di augurio di un a presto rivederci, che lo chef,  l’oste, il trattore vi porge, e che non potete fare a meno di accettare....”
La ricetta è elementare: “ in acqua bollente e salata lessare i vermicelli “ al dente”, (qui ci vuole la massima attenzione!) Prima di scolarli, fate soffriggere a parte, in purissimo olio extra vergine di oliva un aglio a spicchi fino a che non sarà imbiondito – e non bruciato – aggiungendo peperoncino rosso secondo il proprio gusto. L’ olio deve essere abbondante perché i vermicelli devono essere scivolosi, sciuliarielli.Versare i vermicelli al dente in una zuppiera, condirli con l’olio e il peperoncino, dopo aver eliminato l’aglio, aggiungere abbondante prezzemolo e eventualmente sale. Mescolare e servire”.
Se proprio si vuole e/o si trovano in casa, si possono aggiungere anche a crudo alici sotto’olio di Cetara.

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domenica 28 ottobre 2012

Una città


 Una città

 

In questa città si può arrivare in due modi, con il treno e in macchina; con l’aereo no, l’aereoporto è lontano, fa parte proprio di un’altra provincia, anche se le compagnie aeree si ostinano a scrivere e avvisare il pubblico che la destinazione finale è la città.

Con il treno, si impiega più di mezzora per percorrere meno 20 km dall’ultima stazione. Da questa

 resta da percorrere una  striscia di terra, è sicuramente una gradevole passeggiata, ma solo per chi ha tempo da perdere. Infatti quì sembra di entrare in un altro mondo, tornare indietro in un altro secolo: il treno va lento su una vecchia linea costruita forse più di un secolo fa, e si ferma in antiche e deserte stazioncine, dove non sale e non scende nessuno

Con l’autostrada è un’altra cosa, ci si trova all’improvviso davanti al mare e ci si immette su una bella strada costiera, che però devi percorrere stando attento ai limiti di velocità, tra i 50 e al massimo gli 80, per cui ci metti più tempo che col treno.

Però lo spettacolo merita: lungo la strada d’ingresso in città, quand’è estate, vedi gente di ogni età  in mutande,  si svestono e  si rivestono in strada, senza problemi,  persone stese come lucertole al sole, sulle terrazze e perfino sui  marciapiedi del lungomare. Distratti dall’inconsueto spettacolo, si corrono seri rischi di tamponamenti..

Il punto di arrivo, con il treno o con la macchina è lo stesso: la stazione ferroviaria, costruita nella seconda metà dell’800, e rinnovata da qualche anno.

Siamo a Trieste, famosa solo per la bora, d’inverno ne parlano tutti i telegiornali, Trieste è l’ultima fermata, oltre non c’è più niente, è finita l’Italia, c’è il confine che una volta era chiuso, oggi si passa senza alcun controllo..

Trieste è diventata italiana nel 1918, neanche un secolo fa, e successivamente nel 1954, quando il GMA, il governo militare alleato cedette i poteri alla amministrazione italiana.  Qui arrivarono i bersaglieri per ben due volte, altro che Porta Pia.

Trieste è antica, prima era Tergeste, piccola colonia romana del I° sec. a.c., raccolta intorno al colle di S.Giusto, luogo di brevi soste e di passaggio da e per le regioni dell’Istria – un pò come per i turisti di oggi che si fermano, guardano, stanno due o tre giorni e vanno via -,  per i ricchi romani che andavano e venivano dalle ville in Istria e Dalmazia.

I pochi abitanti, che vivevano nel piccolo, ma già pensavano in grande –  oggi l’atteggiamento non è cambiato -  si costruirono il loro teatrino, e altri edifici, come testimoniano i reperti archeologici.

La città più importante dell’area era, invece, Aquileia, fondata proprio per presidiare il territorio di confine e poi sede di importante Patriarcato, per non parlare poi, di Venezia.

Con la Repubblica di S. Marco, il libero Comune medioevale di Tergeste ebbe diversi conflitti e non volle cedere, preferendo, nel 1382,  “darsi” al Duca di Asburgo d’Austria.

La città non ebbe una grande storia, restò una piccola realtà marinara fino al 1718, anno in cui fu creata, dall’imperatrice Maria Teresa  - che ancora oggi molti rimpiangono insieme a Francesco Giuseppe -, la zona franca extra/doganale, il Porto franco.

Solo così affluirono capitali, la città  crebbe economicamente e crebbe anche la popolazione. La piccola città si allargò oltre le mura, fu creato quello che oggi è il borgo Teresiano, Ponterosso, Piazza Unità, le Rive, e via fin dove è oggi la stazione ferroviaria e il porto, oggi detto vecchio.

Per due secoli la città progredì, diventando il porto commerciale più importante dell’Alto Adriatico, per il fatto di essere l’unico favorito da Vienna anche rispetto a Fiume, Pola e alla stessa Venezia.

Nel  1918, la caduta dell’impero asburgico e l’annessione al regno d’Italia rappresentarono sì la conclusione del risorgimento nazionale e dell’irredentismo, ma – secondo molti - anche la rovina economica della città, che da unico porto dello stato austriaco dovette rinunziare al primato e adattarsi a condividere i suoi commerci con gli altri porti italiani.

Per non parlare poi delle conseguenze della sconfitta italiana dell’ ultima guerra, il taglio di tutti i territori circostanti, l’occupazione delle truppe anglo-americane, il confine con il blocco sovietico e la Jugoslavia, la divisione in zona A e zona B.

Nel 1954 la città fu restituita all’Italia:  Trieste occupò soltanto una striscia di terra stretta tra il mare e il Carso, senza altro territorio che la sola città, di fede nazionalista e comunque destrofila, e quattro paesotti bilingui, legati al regime jugoslavo.

Da qui, conflitti continui tra destra e sinistra, tra partigiani e ex fascisti, le foibe e gli esuli istriani e dalmati. Questi ultimi continuano ancora oggi – in verità sono soltanto i loro figli o nipoti – a reclamare la restituzione dei cosiddetti “ beni abbandonati”..

La città nutre oggi rimpianto per l’Austria, verso la quale c’è una vera e propria adorazione e l’idea, forse non errata, che con  l’Impero si stava meglio. Per questo è l’ unica città italiana che dedica monumenti a chi governava prima dell’Unità, c’è la statua di Sissi, l’imperatrice moglie di Francesco Giuseppe, e quella di Massimiliano d’Asburgo, sulla cui collocazione si sono sviluppate lunghe e noiose discussioni e polemiche.

Il confine, tutto sommato, contribuì però, anche a una crescita economica.

Già, perché in città presto si creò un grosso mercato destinato ai paesi dell’Est, da li venivano e compravano tutto, dall’abbigliamento ai ricambi per motori,  per auto, mentre per le carni , le sigarette e la benzina erano i triestini – e non solo - che andavano a far acquisti oltre confine, e a pranzo e cena spendendo poco, con il vecchio dinaro jugoslavo..

A Trieste, al mercato di Ponterosso, si sono create grosse fortune, commercianti anche improvvisati, su bancarelle vendevano  di tutto e di più, generi di bassa qualità a cittadini dell’Est europeo che il sabato mattina invadevano la città.

Con la dissoluzione della “Jugo”,  e la creazione degli Stati nazionali – Slovenia, Croazia, Serbia -, nei primi anni ’90, Trieste perdeva ancora una volta economicamente, il commercio iniziava la fase discendente, adesso sono i Triestini ad andare in Slovenia a far spese in quei centri commerciali, per non parlare del porto superato, ben presto, dall’attivismo di quello di Koper.

Il Porto Vecchio, dove è il punto franco, è una antica struttura composta da banchine e moli, da grandi depositi e magazzini di carico e scarico, adiacente la stazione ferroviaria, che funzionava con un sistema integrato mare/terra, navi e treni che si spostavano poi lungo le rive, fino agli altri moli. E’ una grandiosa area demaniale, recintata, 70 ettari, sui quali litigano tutti, Demanio, Ferrovie, Sovrintendenza, Autorità portuale, Comune e Provincia e anche la Camera di Commercio, e ognuno ha la sua proposta di riutilizzo.

Vivo a Trieste da più di 30 anni e nulla è cambiato, però la fantasia di  sindaci, di assessori, di presidenti di Enti e Regione, di consiglieri di ogni ordine e grado, e ovviamente del  presidente della camera di commercio – che è sempre presente come il prezzemolo -, si esercita sull’argomento con le più disparate  e strampalate proposte. Al contrario c’è chi invece non parla, non commenta, non compare neppure ma blocca tutto inserendo i suoi uomini e le sue donne nei posti chiave dela città, come ad es. l’Autorità portuale.

Alla fine, resta soltanto uno spazio rubato alla città; forse  basterebbe solo aprirlo al pubblico  e farne un lungomare per passeggiare, o per stabilimenti balneari o, magari, un parcheggio, visto che attualmente sembra che molti ne usufruiscono abusivamente, e nessuno fa una contravvenzione per divieto di sosta. ”Porto vecchio caos sui posteggi abusivi”, titola il solito quotidiano:  non c’è chiarezza sulle multe da applicare “ per la capitaneria vige il codice della strada, per l’Authority bretella ancora demaniale”. Mah!!

L’unica cosa che è stata fatta nel Porto vecchio è dovuta a  un estraneo, a uno di fuori Trieste, a Vittorio Sgarbi, che come curatore della Biennale di Venezia ha inventato la “ biennale diffusa ” e ha letteralmente “imposto” anche a questa città l’utilizzo di un vecchio magazzino del porto, e la Regione  e l’Amministrazione comunale sono state costrette a sistemare e ad aprire, in fretta e furia, l’area, da anni, nascosta ai cittadini.

Il punto franco dovrebbe richiamare operatori commerciali da fuori, che sono stati e probabilmente sarebbero gli unici a portare una ventata di novità e soprattutto di attivismo.

Venivano da fuori quelli che in passato fecero crescere la città” secondo il sociologo A Gasparini, ”la crescita economica, commerciale e anche sociale della città fu costruita “ dal governo di Vienna, che creò con spirito concreto e illuminato le condizioni ideali per un porto efficiente- da il Piccolo del 19 dicembre 2011 -…..infrastrutture, tecnologie, porto franco, ecc….ogni cosa arrivò dall’esterno….. Trieste, resa grande in passato da chi arrivò da fuori, rimasta poi svuotata di progetti, ma ancora convinta di essere  il centro del mondo”.                    

L’ apertura provvisoria del porto vecchio, ancora oggi viene presentata come una grande conquista, e addirittura merita la prima pagina del quotidiano locale la  sua proroga, mentre è del 25 settembre 2012 la notizia: “ Daremo l’ultima spallata al porto vecchio”, per restituirlo alla città. Sono le ultime parole famose del Sindaco!

E’ del 29 settembre 2012- infatti - la marcia organizzata dal Sindaco per riappropriarsi dell’area del porto vecchio, un migliaio di persone, insieme al sindaco e a qualche parlamentare locale, ma hanno trovato i cancelli chiusi! Sono seguite le solite polemiche con l’Autorità portuale ritenuta responsabile della chiusura.

La classe politica di questa città vivacchia e, in generale, non sembra contare molto a livello nazionale, superata di gran lunga dagli odiati cugini friulani.

Attualmente Comune e Provincia, caso stranissimo perché Trieste è stata ed è una città di destra, sono rette dal centrosinistra.

Quando non sanno più cosa dire, tutti, politici e non, si riempiono la bocca della parola “Mitteleuropa”, la città mitteleuropea”. Cosa vuol dire? Si paragonano a Vienna, Berlino o Parigi! L’ultima è questa sempre estratta dal solito giornale, del 26 settembre 2012:” Trieste, Parigi, Londra , Mosca, la passerella delle gallerie…..”..

La classe politica locale affronta questioni “importanti”: oltre a quelle già dette sulla collocazione di un paio di statue, si è occupata dell’abete natalizio da sistemare in piazza grande.

Dalla cronaca dello storico quotidiano della città, “il Piccolo” di giovedi 1° dicembre 2011: “…L’albero della discordia – quello alto appena 13 metri che aveva sollevato polemiche – e delle polemiche “politiche”,  originario dei boschi di Sappada, verrà ricollocato altrove, come assicura l’assessore comunale……che spiega inoltre: in piazza Unità ne sistemiamo uno più folto , concesso dalla Regione”.

Dichiarazione del Sindaco: “ Trieste avrà la sua bella piazza con un bell’albero illuminato, come Parigi, Bruxelles, Amsterdam e Berlino-…..” Di nuovo il confronto con le metropoli europee, veramente fuori luogo, e ancora una volta la dimostrazione di come qui “vivono in piccolo e pensano in grande”.

Trieste  è  una città pulita? Mica tanto!

La raccolta differenziata è stata pensata e avviata da poco, dal 2011, ma non si fa il porta a porta,  la città è stata riempita di piccoli e grandi cassonetti che però spesso non vengono ripuliti.

Dalla cronaca del Piccolo del 15 ottobre 2011:“ lo spazzino pure lui suonerà due volte. Due volte ogni quattro giorni, però, almeno nel caso dell’addetto all’indifferenziata……Il giorno si e l’altro no riguarderà la vuotatura della maggior parte di quei grandi cassonetti da 3.200 litri dislocati, di norma, nelle cosiddette isole ecologiche……Ha dato dunque questo responso la sperimentazione avviata nelle passate settimane….”

Il 18 dicembre 2011, sempre su il Piccolo si legge che” non è mai partita la massiccia(?) campagna informativa che avrebbe dovuto raggiungere tutte le famiglie……i cittadini non ancora ricevuto il materiale previsto……soprattutto il pieghevole con tutte le istruzioni per l’uso…” ancora oggi sto aspettando di ricevere istruzioni sull’argomento. Però Trieste è una città mitteleuropea, vuoi mettere?

Dal solito quotidiano del 29 dicembre 2011, grande titolo: ” Differenziata, meglio Napoli” ( Napoli  ringrazia), e poi nell’articolo:  la chiamano differenziata spinta, ma di spinto non ha proprio niente. Di osceno ci sono le percentuali ferme ancora al 26% e lontane anni luce dal traguardo europeo del 65% da raggiungere entro il 2012………..Persino Napoli ..è riuscita a fare di meglio….” Oggi non è ancora cambiato nulla., anzi vengono scoperte anche qui discariche abusive di pneumatici e altro, compresa diossina e,,…

Dal solito – e unico – quotidiano cittadino, del 25 settembre 2012, Titolo: “ Ex valichi – i confini con la Slovenia - , 5 anni dopo degrado senza confini. ….In Slovenia non è così…” I bordi del piazzale che separa, anzi unisce, Italia e Slovenia, è cosparso di spazzatura.  Centinaia e cemtinaia di bottiglie taniche di plastica, sacchi, pezzi di elettrodomestici, escrementi. E ancora batterie d’auto, copertoni, resti di cibo, vetri calcinacci ecc…” In effetti non è necessario arrivare ai confini per trovare degrado e sporcizia, basta girare per le strade del centro storico, ma non quelle ben frequentate, quelle de salotto buono, sono quelle invece buie, nascoste, dimenticate, dove si trova di tutto e di più, dove si sente l’odore nauseante di urina animale e umana, di escrementi anche umani e di vomito di ubriachi.

Ovviamente tutto ciò non fa notizia a livello nazionale, ma se la stessa cosa succede a Napoli, Palermo o Roma, tutti i media scatenano la solita guerra.

E il 25 luglio di quest’anno  viene data notizia che “ parte l’operazione umido per la grande distribuzione ei ristoranti, saranno installati circa 300 super contenitori”.Da una lettera di un lettore triestino: “ Ho visto in piazza …. un cassonetto per i rifiuti indifferenziati pieno di cartoni. Accanto gli altri cassonetti di quell’”isola ecologica”, tra i quali ovviamente ce n’è anche uno  per la raccolta della carta, vuoto”.(21 luglio 2012)”

Non parliamo poi della suscettibilità di Trieste.

Molte polemiche suscitò in città, tempo fa,  ULISSE, la rivista dell’ALITALIA, che eccezionalmente parlava di Trieste: “la città che non sa ridere, il capoluogo è adatto a cacciatori di fantasmi ecc…” dove si voleva intendere che è un posto dove si vive di passato, “solo con quei due scrittori famosi, Italo Svevo e Umberto Saba, gli altri non esistono, uno è irlandese, James Joyce e l’altro è l’austriaco Raine Maria Rilke”. L’ offesa era gravissima. E il quotidiano locale perse una buona occasione per tacere e sentì il bisogno di attaccare – il 25 giugno 2011 – l’autore di quell’ articolo, che alla fine era stato letto dai pochi viaggiatori della compagnia aerea,  poichè  parlava “solo di luoghi comuni  e di stereotipi sulla città”. A mio parere, in quell’articolo e in quei luoghi comuni c’era molta verità.  

Dopo “Ulisse” c’è “URSUS”.  Non è un personaggio mitico, né il protagonista di film mitologici: è soltanto un reperto di archeologia industriale, io lo chiamerei un ferrovecchio, una antica gru posta su un pontone galleggiante, a mare, che probabilmente tanto tempo fa era utile nel porto. E’ venuta fuori una storia infinita e le solite polemiche per salvarlo dalla distruzione e addirittura qualcuno si spinse ad affermare che, conservandolo, Trieste avrebbe avuto la sua Torre Eiffel!

A Trieste si lavora e si osservano le regole, ma siamo sicuri?.

Ci sono addirittura “40” indagati per assenteismo, praticamente tutto l’ufficio, cioè impiegati  della Soprintendenza ai monumenti, che timbravano e poi uscivano, sembra dalle notizie di stampa, dal direttore all’ultimo tecnico, tutti filmati dalla G.d.F. Ma anche questa notizia resta a livello locale, mentre se capita che “uno o due” impiegati sono assenteisti a Roma, a Palermo o a Napoli, finiscono su tutti i giornali e le TV.

Anche qui la crisi si fa sentire, e le pochissime industrie stanno chiudendo o sono già chiuse con centinaia di lavoratori per strada; un discorso a parte meriterebbe la Ferriera, che da anni inquina l’aria e la salute di quelli che abitano nella zona, ma questo non è un caso nazionale come l’Ilva di Taranto. il Sindaco, anche oggi, fa inutili ordinanze per limitare i fumi, la proprietà se ne frega, e

Lo stesso sindaco dichiara: “ Ferriera già morta, subito un piano per guidare la fine”. 

Le uniche  eccellenze di questa città sono il Centro di Fisica di Miramare, che accoglie scienziati di tutto il mondo, poi l’Area di ricerca, e soprattutto,“i Matti” di Basaglia, lo psichiatra che abolì i manicomi e che ispirò tutta la attuale normativa in materia.

Anche nel settore dello sport non ci sono eccellenze. A Trieste si praticano molte attività sportive, dalla semplice corsa sul lungomare all’alpinismo, dal nuoto al basket, dalla vela – non per niente si svolge , ai primi di ottobre di ogni anni, la gara di vela detta la Barcolana – dalla scherma al calcio, ma, a quanto pare, i risultati non sembrano molto positivi.

Alla barcolana  c’è sempre una grande partecipazione: era iniziata in sordina tanti anni fa più come una festa del mare e della vela, alla quale poteva partecipare chiunque avesse una barchetta a vela, senza l’obiettivo di vincere alcuna gara. Davanti alla piazza dell’Unità si vedevano migliaia di barche e di vele, uno spettacolo visibile anche dal centro. Con il passare degli anni è diventata una vera e propria gara riservata ai professionisti della vela e alle migliori barche del settore, e un grosso affare turistico-commerciale.  

Trieste ha costruito un bellissimo stadio per il calcio, che può accogliere squadre di serie A e ha accolto anche qualche partita della nazionale.

Peccato che la squadra locale, la Triestina non è andata oltre la serie B, per riempire lo stadio la società ha usato fantocci e teloni dipinti.  Quest’anno, la società è fallita e per può caso si è iscritta i al campionato di Eccellenza.

Ma sopra ogni attività sportiva c’è la famosa – nella sola Trieste – società ginnastica triestina, un antico sodalizio,  al quale è stata anche intitolata la strada dove  è la sede. Anche qui, quando c’è stato il fallimento, c’è stata una lunga polemica sulla gestione del presidente, polemiche e denunzie.

In questa piccola città è difficile trovare un triestino doc, di almeno 3/4 generazioni, poiché in città sussistono varie popolazioni: italiani di ogni regione, sloveni, croati, serbi,, tedeschi, austriaci, ungheresi, greci, ebrei, ai quali si sono oggi aggiunti cinesi, nordafricani e africani, albanesi, rumeni ecc. In questa città c’è comunque il culto della salute e del corpo, molti abitanti praticano o hanno praticato in gioventù, almeno un po’ di ginnastica.

Gli abitanti sono circa duecentomila , in maggioranza composta da uomini e donne della terza e quarta età. A questo proposito leggevo che finalmente la città ha il suo bel primato.

Una ricerca internazionale del Mc Kinsey global institute assegna a Trieste il primo posto per il numero di anziani, di età superiore ai 65 anni, presenti.

Sono tutti pensionati - Trieste è una città assistita, dall’Inps - affollano le strade cittadine, i mercati e supermercati, i bus e pretendono che tutto gli sia dovuto, vivono generalmente soli e, purtroppo, da soli spesso muoiono senza che nessuno se ne accorga.

La città è solo una stretta striscia di terra, con pochi spazi nei quali girano troppe auto, la benzina costa ancora poco nella vicina Slovenia, ma soprattutto è la città dei motorini. Tutti vanno sulle due ruote, intere strade  sono chiuse per consentire la sosta dei motorini, i morti negli incidenti stradali sono soprattutto motociclisti.

Una città rumorosa e disordinata, un traffico congestionato, macchine in sosta in doppia e tripla fila. E’ la città delle Sirene, ma non le sirene quelle di mare, metà donne e metà pesce, o quelle di Ulisse, che attraggono i naviganti con le loro voci, ma proprio le sirene dei mezzi di soccorso, soprattutto ambulanze, e di polizia e carabinieri, che per qualsiasi cosa inseriscono, tanto che ci sono più sirene in questo angolo di Italia che a Milano o Roma.

Il triestino autoctono , ma anche chi viene ad abitarci da fuori, ha un atteggiamento particolare, assume comportamenti singolari, si atteggia a cittadino di una grande metropoli, ma alla fine vive  di assistenza – visto che son tutti pensionati anche giovani -  e rassegnazione, spesso invidiosi dei friulani più attivi e motivati, e appoggiati da politici di spessore, che sono più considerati. Perennemente in polemica con i friulani che considera “campagnoli” e con sloveni, croati e, in generale, quelli dell’est, salvo poi ad andare in Friuli, in Slovenia, in Croazia, per “magnar e bever”.

Il triestino veste generalmente come gli capita, salvo ovviamente le eccezioni di chi esagera, al contrario, nell’abbigliamento ricercato.    

Il triestino parla, generalmente, l’unica lingua che conosce, cioè il dialetto, anche con chi viene da fuori, convinto che tutti debbano capirlo, e non fa nessun sforzo per tentare di parlare in “lingua”: in qualsiasi  ufficio pubblico, o anche negozio, devi prima fare un corso accelerato di dialetto.

Qualche volta anche qui si incontra qualcuno che riesce a parlare italiano, ma sono generalmente persone che vengono da fuori, e anche triestini che sono riusciti ad allontanarsi dalla città per lavoro in altre città o all’estero, e tornano di tanto in tanto. Il peggio del peggio è costituito da quelli che vengono soprattutto dal sud e parlano nel dialetto locale, non si sa se ridere o piengere.

Da Trieste non è facile allontanarsi, ovviamente per quelli che ci sono nati, ma anche per coloro che  venuti da fuori, non ce la fanno poi ad andarsene; eppure, chi va via, si realizza meglio in ogni settore, nel lavoro, nell’arte e in tutti gli altri campi.

Alta è la frequentazione delle osterie e dei “buffet”, dove bevi un buon bicchiere di vino fin dal mattino, accompagnandolo con vari assaggini. I triestini,in verità, sono anche assidui frequentatori e intenditori di caffè, che può assumere varie forme e denominazioni:  nero, lungo o corto, in tazza o bicchiere, mentre non esiste il classico cappuccino, ma il “capo”, che è il caffè macchiato e il “gocciato”.

Trieste è conosciuta in Italia solo d’inverno, quando su tutti i TG, appaiono le immagini di questo vento, la bora, che soffia anche a più cento all’ora, e molti si chiedono come sarà.

Le previsioni del tempo nazionali, a Trieste ci azzeccano raramente, diceva un mio conoscente che, per averle più esatte, bisogna vedere quelle della TV di Capodistria!

Generalmente il triestino “ vero”, non può lavorare tutto il giorno né studiare, non ha tempo da perdere, e anche nelle brevi pause “deve” andare a Barcola.

Si chiama così il lungomare  occidentale, sulla strada che porta al “castel de Miramar” e poi sulla costiera fuori città ,

Andare a Barcola, come andar a “magnar in Jugo”, è un rito al quale nessun abitante di TS può rinunziare, almeno una volta bisogna farlo, d’estate come anche d’inverno.

L’impegno maggiore, il pensiero che domina la mente del triestino  è rivolto al sole. Quando c’è il sole, anche d’inverno, il triestino – potendolo fare e se non è costretto dagli orari di lavoro - lascia tutto, e corre a Barcola..

Qui c’è un rapporto speciale e ravvicinato con il mare e con il sole, i triestini sono adoratori del Sole e lo seguono lungo il suo corso, con l’asciugamani o il lettino, da oriente a occidente..

Andar al bagno” è l’espressione usata per dire andare al mare, ma – spiacente di deludere i soliti triestini che pensano di essere unici - non è un espressione tipica di quì, ma è tipica dei posti di mare:  ad esempio. anche a Napoli si dice “ jamm’o’ bagno “( andiamo al mare), mentre andare al mare è invece tipica degli abitanti dell’entroterra

A Barcola  i triestini sono tutti uguali, tutti in mutande, c’è la vera democrazia, non riconosci il disoccupato dal professore,  l’operaio dal professionista.

Tutto il marciapiede del lungomare, un tragitto di circa 2 km, offre la visione della giornata della popolazione triestina. Ci si va con il bus, con l’auto o con lo scooter, muniti sempre di lettino regolamentare. L’auto diventa spesso come il proprio spogliatoio o magazzino, e resta lì ferma tutta l’estate per paura di perdere il posto. C’è tutto l’occorrente per il mare, sempre anche d’inverno, non si può mai sapere può capitare una bella giornata di sole e bisogna essere pronti: lettino, asciugamani, sedioline, costumi e mutande di ricambio e ciabatte, ombrellone e materassini, bocce e carte da gioco per passare il tempo.

La mattina è, in generale, degli anziani, dai 60/70 in su, vanno alle 7, si tuffano in un mare -ovviamente fresco -, qualcuno ci resta pure, e si ritirano alle 11. Dopo quest’ora, avviene spontanea una precisa suddivisione: in la pineta le famiglie, sulle terrazze dette “topolini” ( sembra che il nome derivi dal fatto che la loro forma ricorda le orecchie di Topolino, il personaggio Disney) i ragazzini adolescenti fino ai 18 anni, sui marciapiedi coppie o single di media età con l’immancabile lettino,  tavolino, sedie e carte da gioco, sulle terrazze del bivio in genere single o coppie medio/ giovani.

Dal primo pomeriggio arrivano i “veri”, cioè commesse e commessi nell’intervallo della chiusura dei negozi, studenti o nullafacenti,  donne e uomini  palestrati, abbronzatissimi.

Dopo le 18, si può incontrare qualche straniero, in genere professori o ricercatori del vicino centro di ricerca del Miramare

Tutti si spogliano e si rivestono senza alcun problema,  stanno uno incollato all’altro, ma non si parlano e non si guardano, spesso con libro o radiolina con auricolari, e in alcune terrazze, trovi anche gli appendini privati messi li dagli habituè.

Fino a poco tempo fa non erano ammesse persone estranee né turisti, oggi può capitare di vederne qualcuno, ma sopportato a malapena

La domenica e altri giorni festivi d’estate , la pineta, bellissima in primavera e autunno, diventa zona di occupazione,  ritrovo di tribù più o meno numerose che si accampano lì per tutto il giorno. Arrivano – ovviamente di mattina all’alba i più attenti - armate di lettini, sdraio, asciugamani, materassini gonfiabili e canotti, tavolini e sedie dove poter mangiare tutto quello che si son portati da casa, cucinato e non, borse frigo con birre e vino, giochi vari, cani grandi e piccoli,.ovviamente tutti, donne uomini, anziani e bambini si spogliano in strada senza alcuna preoccupazione e/o vergogna:  Poi si stendono tutti sull’asfalto o su quello che resta di un prato, e vi giacciono contenti respirando il gas dei tubi di scappamento delle auto

 La sera la pineta sembra un campo di battaglia. Poi  si parla del sud!.

Un turista o comunque chiunque arriva in questa città la prima volta e si trova davanti uno spettacolo del genere, come dicevo all’inizio di questo racconto, resta quanto meno disorientato.

Trieste non è mai stata una città turistica, anche se ultimamente stanno cercando di cambiare, ma mancano la mentalità e volontà, i negozi son chiusi, fino a poco tempo fa la domenica tutti i ristoranti del centro erano chiusi, restavano aperte solo le pizzerie gestite dai soliti meridionali.

Il turismo a Trieste è quello “mordi e fuggi”, due o tre giorni al massimo, visto il castello di Miramare e S.Giusto, un giro per la piazza Unità e il lungomare.

Ultimamente in piazza Unità hanno esposto un megayacht, pensando che comunque potesse diventare motivo di attrazione o di conoscenza della città.

Il commento è stato: “ una operazione pacchiana come tutto ciò che si fa a Trieste in materia di promozione turistica”.

Le operazioni pacchiane comunque non sono una novità:  quella rara volta che attracca una nave da crociera, l’arrivo veniva accolto da fuochi d’artificio e dalla banda paesana.

I crocieristi apparivano sconvolti da queste iniziative, mentre salivano sui bus che li portavano in giro soprattutto fuori città. Da quali bus? Quelli sloveni, più economici e più disponibili..