sabato 13 aprile 2013

RUBBIA e dintorni ( seconda parte)


A sud della pianura padana,  sui colli circostanti il fiume Tevere, una piccola città chiamata Roma era cresciuta: si era ripresa dal saccheggio dei Galli del 386 a. c., aveva sbaragliato gli Etruschi, aveva già conquistato popolazioni e città del sud Italia, e poi i Celti che vivevano nell’area emiliano romagnola.
Quì, Roma aveva fondato colonie come quella di Rimini, nel 268 a. c.. di Cremona e Piacenza nel 218,  poi Bologna del 189, e Mantova nel 183.
Più a nord, i Galli cisalpini, che si erano schierati con il grande nemico di Roma, Annibale, nella seconda guerra punica,  partecipando a tutte le battaglie contro i Romani, attendevano, sconfitti,  il loro destino.
Il Nord/est, era occupato in parte ancora dai Veneti, che vantando leggendari antenati comuni – Antenore ed Enea, entrambi troiani - erano tradizionali alleati di Roma e, in altre zone, da popolazioni celtiche, come i Galli Carni che si erano stanziati nella zona intorno all’attuale Aquileia: essi erano già stati costretti a pagare un tributo a Roma, in segno di sottomissione, insieme agli Istri, stanziati nella penisola omonima e sul Carso triestino.
L’espansionismo romano e guerricciole locali, costrinsero i Carni a trasferirsi tra i monti che prenderanno poi il nome da loro, e, nel 181 a. c., secondo Tito Livio: “.. ..fu dedotta nel territorio dei Galli la colonia latina di Aquileia….”.

Aquileia
 La costruirono – secondo lo storico romano -, con funzioni di controllo del territorio, tremila legionari, oltre a centurioni e cavalieri, ai quali furono assegnati vari ettari di terreni.
Aquileia – così la descrive il geografo greco Strabone ( 60 a. c./ 23 d. c.) - “…..è la più vicina al golfo dell’Adriatico, è stata fondata dai Romani, fortificata contro i barbari dell’interno. Si risale con le navi verso la città salendo lungo il corso del Natiso,( Natisone) per circa 60 stadi. Essa serve da emporio a quei popoli illirici che abitano lungo l’Istro (Don). Essi vengono a rifornirsi di prodotti provenienti dal mare, come il Vino che mettono in botti di legno, caricandolo sui carri….”.
I Romani, dove arrivavano,  oltre a case,  teatri e terme, costruivano strade di collegamento, prima per uso militare, e poi anche per uso civile e commerciale: nacquero quindi la via Postumia, la via Annia verso il Veneto e la colonia di Concordia sagittaria, e la pianura padana, e poi anche la via Julia Augusta verso le Alpi, verso Coccau.
castrum
La strada che collegava Aquileia con Lubiana ( Emona), fu una delle principali vie di comunicazione con la pianura danubiana; la strada romana procedeva da Aquileia verso l'odierna Gradisca d’Isonzo per poi dirigersi verso Farra d’Isonzo. Tra il paese di Mainizza  e Savogna i Romani edificarono un ponte, i cui resti si possono ancora notare nei periodi di secca del fiume.  Da Savogna la strada continuava verso Aidussina per poi  raggiungere Lubiana.
E’ probabile che proprio in questo periodo, durante la costruzione del ponte di Savogna, soldati romani, considerata la posizione strategica  abbiano costruito a Rubbia, un castrum, o un castellum, un accampamento fortificato, o comunque una torre di guardia, per il controllo militare della via e di quel territorio.
I castellieri, da secoli ormai, erano stati abbattuti e non esistevano più: i muri di pietra che restavano in piedi recintavano ora magazzini o allevamenti.
Anche l’Adriatico era in mano a Roma, che era intervenuta contro i pirati Liburni, creando basi in Dalmazia e altre zone costiere per il controllo di quel mare. 
Resti del ponte di Savogna
Intorno a un colle dominante su un angolo di mare, fu fondata nel I° secolo a.c. Tergeste, piccola colonia, posto di brevi soste, e luogo di passaggio da e per le regioni dell’Istria,  per mercanti o i ricchi romani che andavano e venivano dalle ville in Istria e Dalmazia. Tracce romane si trovano oggi sul colle di S. Giusto e nel piccolo teatro.
Ma era Aquileia la colonia che si avviava a diventare il centro politico, militare e commerciale più importante della zona: essa  si dotò anche di un porto fluviale, sul fiume Natisone e divenne ben presto un grande centro urbano e commerciale.
Nel 32 a. c. fu nominata capitale della Regio X Venetia et Histria.  La città divenne un centro commerciale  ricco e importante, il più importante della regione, i traffici, che già si svolgevano in quella zona fin dai tempi antichi, continuavano e anzi progredivano, con una popolazione multietnica: accanto ai funzionari romani e ai coloni latini, risiedevano ebrei e nordafricani, veneti, Carni e Istriani e, da quanto si racconta, superava i 100.000 abitanti. Vi soggiornarono anche Giulio Cesare nel 56 a. c. e l’imperatore Augusto.
Non posso non accennare, ora,  alla coltivazione della vite e alla produzione del vino, che in questa area arrivò sicuramente insieme alla fondazione di Aquileia.
 I Celti e le popolazioni indigene non conoscevano la vite e il vino, se non attraverso i commerci con Etruschi  e Greci del sud-Italia o dell’Egeo.
Furono i legionari, guerrieri ma anche coloni e contadini, a impiantare le viti, qui come nel resto d’Europa, conquistato da Roma (G. Negri e E. Petrini, Roma Caput Vini, ed Mondadori).
La varietà delle vigne impiantate in questa regione resta comunque un mistero, c’è chi propende per il Terrano-Refosco e chi per il Prosecco, e chi inoltre, per lo sconosciuto  dorato Vipacco”.
Azienda agricola castel di Rubbia
In verità Plinio il vecchio, nella “Historia naturalis”, parlava di un vino “Pucino”, bevuto dalla moglie di Augusto, Livia, al quale attribuisce i suoi 86 anni perché si crede che non ve ne sia “di migliore per i medicamenti” : quel vino “….nasce nel golfo del mare adriatico, non lungi dalla sorgente del Timavo, su un colle sassoso, dove alla brezza marina matura per poche anfore..”.
Il “Pucino”, non è stato ancora identificato, ma in verità, ancora oggi, il vino Terrano è raccomandato dai medici per le persone anemiche e per un corretto funzionamento dell’apparato digerente, viene prodotto sull’altopiano carsico,  che è sicuramente “sassoso”.
Anche ad Aquileia giunsero i primi segnali di un nuovo movimento religioso che era iniziato in Palestina, il cristianesimo. Come nel resto dell’impero, la diffusione della nuova religione non ebbe vita facile; si dovrà attendere, come sappiamo, l’anno 313 per uscire allo scoperto con l’editto di tolleranza dell’imperatore Costantino e qualche anno dopo, nel 395, il riconoscimento del cristianesimo come religione dello stato da parte di Teodosio.
Aquileia era diventata sede dell’autorità vescovile per tutta l’area friulana e istriana.
Ma la città si trovava proprio all’ incrocio delle vie che dalle Alpi e dalle pianure orientali arrivavano in Italia. Oltre il confine del Danubio, nell’attuale Ungheria e Austria, nei Balcani, popolazioni nomadi, definite “barbare”, si affollavano ai confini dell’impero e volevano oltrepassarli, con le buone o con le cattive.
Aquileia,basilica
Perciò tra il IV e il V secolo  d. c. le antiche vie consolari, e in particolare la valle del Vipacco, divennero teatro di eserciti, guerrieri e intere popolazioni in movimento che nessuno riusciva più a fermare, se si eccettua Stilicone che “ sconfisse i barbari in due grandi battaglie a Pallanza e a Verona e li respinse nel Friuli” ( H.Pirenne, storia d’Europa, dalle invasioni al XVI sec.).
Fu un periodo di grande confusione e di grandi invasioni:  Goti, Avari, gli Unni guidati da Attila, Slavi, Ungari arrivavano dai valichi alpini e carsici: il sistema di fortificazioni romano che controllava tutte le strade che  giungevano dall’Illirico in Italia, era ormai abbandonato.
 Alarico  e i suoi Visigoti saccheggiarono Aquileia che cessò di essere un centro politico e militare, gli Unni con Attila assediarono la città che resistette a lungo, ma  subì alla fine un castigo proporzionato alla resistenza che aveva opposto, l’intera regione divenne una terra di rovine e desolazione. Tutti i posti di difesa, castelli, “castra e oppida”, le grandi mura che circondavano i paesi non servirono a fermare l’invasione. “ ..non la densità delle selve, né l’asperità delle alte montagne, né la corrente dei fiumi dal rapido gorgo; non i castelli dei singoli luoghi, né le città difese da mura; non l’intransitabile mare, né lo squallore del deserto; non i burroni scoscesi e neppure le caverne nascoste fra le rupi….”…riuscirono a fermare le violenze, come scriveva un anonimo ( forse un vescovo ) cronista dell’epoca.
Forse era esagerata la drammaticità del momento , perché almeno “l’intransitabile mare” consentì la fuga e il riparo degli abitanti da Aquileia e di altre città venete nelle lagune, dove poi nacquero Grado e Venezia.
Il crollo fu totale, l’impero d’occidente non esisteva più,  nel 476 il barbaro Odoacre depose l’ultimo imperatore Romolo:  nel 489, sull’Isonzo, egli si scontrò con un esercito bizantino che provava a riconquistare i territori italiani,  e fu sconfitto.
Ritiratosi a Ravenna e assediato, poi, venne ucciso da Teodorico, re dei Goti, che si installò in quella città e si proclamò re d’Italia.
 A Roma l’unica autorità restava il Papa; negli anni 535/553,  le guerre gotiche/ bizantine promosse dall’imperatore d’oriente  Giustiniano,  consentirono  l’effimera riconquista di parte dell’Italia, da sud a nord, Ravenna, Venezia, a Trieste, dove fu installato uno speciale presidio militare per  difendere il territorio da altre eventuali invasioni.
Verso il 600 furono i popoli slavi che si mossero, occupando i territori dell'Europa centrale lasciati liberi da Goti, Germani e altri popoli: attraverso la Polonia essi giunsero fino alla Pomerania scendendo a sud e valicando il Danubio giunsero fino nell’attuale Serbia, Romania,  mescolandosi con le popolazioni preesistenti.
Secondo gli storici, gli Slavi erano originari dell’area baltica e furono chiamati dall’imperatore d’Oriente, Eraclio, per difendersi dagli Avari, e gli assegnò molti territori dalla Carinzia all’Istria, dalla Serbia alla Macedonia , dal Danubio all’ alto Adriatico.
Tra i territori occupati dagli Slavi, c’era anche quello che era stato lasciato libero da un altro popolo, diretto verso l’Italia:  secondo molti storici, quest’ultima invasione portò non solo a modificare in maniera  sostanziale il profilo culturale dell’attuale Friuli-Venezia Giulia, ma, in generale, modificò la storia d’Italia: l’arrivo dei guerrieri dalle lunghe barbe, i Longobardi “ ..al di qua delle Alpi determinerà fino al XIX secolo le sorti d’Italia: finì da allora l’unità di quel paese che aveva unificato il mondo”(  H. Pirenne, Storia d’Europa, dalle invasioni al XVI sec. Ed. Biblioteca Sansoni).
 Nel 568, superato il monte Nanos ( Paolo Diacono, storico di Cividale, Historia longobardorum, parla di Monte del re),  il re ( dei Longobardi) Alboino con tutto il suo esercito e con una moltitudine di popolo, uomini e donne”, attraversarono il passo della Selva di Piro, in sloveno Hrusice, tra le valli del Vipacco, percorsero la via Gemina che raggiungeva Lubiana,   penetrarono in Friuli, senza incontrare resistenza e giunsero a Forum Julii ( Cividale), dove, accolti bene anche dalla popolazione, si fermarono per vari mesi. 
Cividale del Friuli
Tutte le antiche fortezze romane, come quella di Rubbia, furono occupate a presidio di quelle stesse strade che essi stessi avevano attraversato senza incontrare particolari difficoltà.
Il primo ducato dei Longobardi fu quello di Forum Julii, con capitale proprio la civitas, da cui il nome Cividale, e fu affidato a Gisulfo, nipote del re Alboino: egli completò l’occupazione della regione annettendo al ducato Aquileia, Concordia e Zuglio, mentre non gli riuscì di prendere le zone costiere e lagunari, che restarono invece in mani bizantine.
Successivamente i Longobardi si espanderanno  nella pianura padana , soprattutto nella regione che da loro prenderà il nome( Lom(ngo)bardia), e arriveranno fino al  sud, in Umbria, in Campania, creando i ducati di Spoleto e Benevento.
L’ attuale Friuli e l’area slovena continuavano ad essere comunque non una vera e propria frontiera, ma una zona d’incontro e soprattutto di scontro tra popolazioni diverse, e teatro di scontri sanguinosi: nel 613, Avari provenienti dall’ attuale Ungheria, oltre a Slavi, invasero il ducato friulano e ne saccheggiarono la capitale Cividale.
Malgrado i continui attacchi e le guerre contro avari, franchi e bizantini, i Longobardi crearono uno stato  che durerà per un paio di secoli fino alla guerra con i Franchi e alla sconfitta da parte di Carlo magno, nel 776.
In quell’anno, il duca longobardo del Friuli, Rotcauso, insieme ai duchi di Treviso e Vicenza, affrontarono Carlo, che aveva già vinto a ovest, a Pavia:  sulla Livenza,- vicino all’attuale Motta di Livenza – i longobardi friulani e veneti furono sconfitti, e dovettero cedere ai Franchi.
Con i Franchi e la creazione del Sacro Romano Impero, il territorio fu riorganizzato: bisogna innanzitutto tener presente che all’epoca il nord est non aveva l’attuale organizzazione, poiché non esisteva la attuale divisione tra le regioni Veneto, Trentino e Friuli. Forum Iulii era solo il territorio di Cividale.
Il patriarcato di Aquileia, spaziava su un vasto territorio che comprendeva anche il Veneto, per la sua posizione geografica  fu protetta anche dopo, da tutti gli imperatori germanici e divenne un vero e proprio principato ecclesiastico, una sede prestigiosa e ricchissima grazie alle cospicue donazioni ricevute da principi e imperatori e anche alla facoltà di coniare moneta.
La parte orientale fu organizzata in parte come marchesato con la vecchia capitale longobarda Cividale e in parte come contea di Gorizia.
Fu un periodo di grande confusione, i confini dei territori erano molto vaghi, i successori di Carlo magno avevano creato anche un ipotetico regno d’Italia; il titolo, anche se puramente formale, comunque faceva gola a molti.
Berengario e la sua corte
Il Friuli, nel l’888, dette un re d’Italia,  Berengario, marchese del Friuli, che successivamente, nel 915, fu nominato anche imperatore del sacro Romano Impero. Berengario era nato proprio a Cividale nell’850 circa, ed era il signore più potente della penisola, perché controllava il Nordest, che era militarmente forte trattandosi della marca di confine con i turbolenti abitanti dei Balcani (M. Scardigli, Le battaglie dei cavalieri, ed. Mondadori)
Egli dovette affrontare, tra l’altro, anche una grande invasione di Ungari, provenienti dalla Pannonia (poi Ungheria), che entrarono per la solita via delle Alpi orientali, saccheggiando e seminando terrore.
Dopo una vita avventurosa, in un periodo confuso, definito dagli storici dei ”secoli bui”, Berengario  fu assassinato a Verona nel 924.
Il nome della città di Gorizia appare, per la prima volta, in un diploma imperiale del 1001, quando  l’imperatore Ottone III  donò al patriarca Giovanni di Aquileia la metà del castello e della villa  que Sclavorum lingua  vocatur Goriza”( W.Baum, I conti di Gorizia, Libreria editrice goriziana) mentre il primo documento relativo alla Contea, secondo gli storici, è del 1107.
Sulla origine della famiglia dei conti di Gorizia le notizie sono frammentarie, ma con ogni probabilità era originaria della Baviera o del Tirolo.
Il territorio della Contea, grazie ad alleanze matrimoniali, diritti ereditari e politica filo imperiale, si estese dal Tirolo alla Carinzia, dalla Venezia Giulia, tranne Trieste,  alla Dalmazia, venendo spesso in contrasto con il Patriarcato di Aquileia per il controllo e il possesso dei territori intorno a Gorizia e della vallata del Vipacco. I conti riuscirono in ogni caso a farsi anche nominare “difensori” di Aquileia.
Dopo l’anno 1000, cominciava un ‘epoca di ricostruzione delle contrade e dei villaggi devastati da secoli di invasioni: furono ripopolate molte aree della Regione, favorendo anche l’immigrazione di popolazioni Slave.
Siamo già nell’epoca in cui iniziano le crociate, che non interessarono direttamente  il Friuli e la Venezia giulia. Se ne parlò  parzialmente, e la contea di Gorizia si fece conoscere nelle capitali europee, al termine della terza crociata, a causa dell’arrivo in zona  del re d’Inghilterra, Riccardo, cuor di leone.
Riccardo cuor di leone
Si racconta infatti che nel castello di Rubbia egli fu imprigionato al rientro dalla crociata, anche se nulla attesta questo racconto.
La storia del rientro di Riccardo, invero, si svolge proprio in questa area e, così come viene narrato, sembra un film di avventure. Una delle fonti più importanti per ricostruire il suo viaggio di ritorno è il Chronicon Anglicanum di Rodolfo di Coggeshall, un monaco che scrisse quella storia qualche anno dopo.
Seguo invece la biografia scritta da Regine Pernoud, che racconta come Cuor di leone, partito dalla Palestina nel 1192, fu costretto da violente burrasche,  che colsero la  esigua flotta nel Mediterraneo occidentale, a mutare rotta e a indirizzarsi nell’Adriatico.
Nelle vicinanze di Corfù, la nave del re fu fermata dai pirati illirici:  questi però riconobbero Riccardo di cui apprezzavano il coraggio,  si convinsero a  imbarcarlo su una delle loro navi, con pochi compagni e servi, e lo accompagnarono fin dopo Ragusa ( Dubrovnik), sulle coste della Dalmazia. Secondo altri autori – vedi W.Baum, I conti di Gorizia -  la nave che portava Riccardo fece naufragio tra Venezia e Aquileia. Comunque sia andata, Riccardo si trovò in territori stranieri e anche sconosciuti. Egli pensava di  recarsi via terra verso le Alpi, ma fu ingenuo e sfortunato: invece di  proseguire di nascosto e magari camuffato, pensò bene di farsi annunziare  al Signore del luogo, per ottenere un salvacondotto per attraversare le sue terre. Un gesto corretto ma che invece gli costò caro.
Arco di Riccardo
Chi era il Signore del luogo?  Mainardo II, conte di Gorizia, che onorato di questa richiesta provvide subito ad ospitare il re d’Inghilterra; nulla vieta di pensare che Riccardo sia stato ospitato per qualche giorno nella fortezza di Rubbia, prima di proseguire oltre.
D’altro canto, il rientro avventuroso di Riccardo dalla crociata è testimoniato anche a Trieste da un Arco dove egli sarebbe  passato, chiamato appunto “ di Riccardo”. In realtà si tratterebbe di una porta della città antica, arroccata sul colle di S. Giusto. Nulla attesta che Cuor di leone sia passato di qua, ma nulla vieta di pensarlo, anche se mi chiedo per quale motivo quest’uomo in fuga, approdato in Dalmazia o ad Aquileia, per raggiungere le Alpi, avrebbe dovuto transitare per Trieste.
Tornando però al nostro racconto, Mainardo II  era non solo vassallo di Leopoldo VI Babenberg,  duca d’Austria e di Stiria, fedele sostenitore degli imperatori Hohenstaufen, e nemico di Riccardo, ma anche parente, forse nipote, di Corrado di Monferrato, morto assassinato in Palestina. Di questa morte si disse che era colpevole proprio il re d’ Inghilterra.
castello medioevale
 Il conte Mainardo,  pensando perciò al proprio interesse, diede allora incarico ai suoi uomini di  arrestare Riccardo, violando anche le prescrizioni della Chiesa in favore dei crociati: Cuor di leone, avvertito però da uno degli uomini che avrebbero dovuto trattenerlo,   travestito da mercante, insieme a pochi compagni, si mise in fuga,  riuscendo dopo varie peripezie, cavalcate e duelli, a raggiungere i sobborghi di Vienna, residenza del duca d’Austria. Qui però, venne  riconosciuto e con i suoi, circondato dai soldati: perciò, dopo una breve resistenza, dovette arrendersi.  Il duca Leopoldo, intervenne personalmente sul posto e si fece consegnare la spada.  Arrestato, Riccardo fu poi consegnato alle forze imperiali.
“ …sui luoghi della sua prigionia disponiamo di scarsissime notizie”, dice Pernoud: secondo questo autore, Cuor di leone fu rinchiuso nella fortezza di Durnstein, in Austria, subito dopo la cattura.
Si hanno comunque notizie di trasferimenti in altre fortezze, e nulla esclude che abbia soggiornato anche a Rubbia; si sa che  fu sicuramente trasferito in Germania a Ochsenfurt,  e successivamente  nel castello di Trifels.
Riccardo tornerà in Inghilterra solo dopo più di un anno e dopo che gli inglesi ebbero pagato il riscatto richiesto. Della prigionia del re  si impossessò la leggenda di Robin Hood, che si batteva per il ritorno del re, contro l’usurpatore Giovanni e lo sceriffo di Nottingham.
Rubbia e Savogna erano sicuramente parte della Contea di Gorizia: il castello doveva essere completamente diverso da quello che oggi vediamo. Anche se è difficile visualizzare un castello di quell’epoca,  possiamo solo immaginarlo facendo riferimento a quel che vediamo ancora oggi: tipico castello medioevale, una rocca, con muro di cinta merlato e camminamento di ronda, torri alte e cilindriche munite di feritoie, circondato da un fossato e con l’accesso tramite ponte levatoio.
antica torre?
A fianco all’edificio, quasi all’ingresso, si vede oggi una costruzione in pietra semicircolare e semidistrutta, nella quale si dice ci sia un fonte battesimale.  Sulla costruzione si vedono i segni di una porta murata; è possibile che si tratti dei resti di un antico castello o di una torre di guardia.
Questa mia ipotesi sembrerebbe confermata da L. Foscan e E.  Vecchiet ( I Castelli dei monti, delle valli del carso goriziano e dell’Isonzo. I Tabor, ed. Luglio, Trieste, pag.102): “ …qualcosa di questo primitivo manufatto medioevale è ancora rimasto, e lo si può individuare nelle due superstiti torri rotonde poste ai due estremi delle mura perimetrali che chiudono il parco di Rubbia…”.
Gli storici pongono la costruzione del castello  come si presenta oggi, nel XV secolo:  fu probabilmente un rifacimento completo, secondo nuovi stili e mutate esigenze, che fece cambiare aspetto al vecchio castello, da fortezza medioevale a palazzo rinascimentale.
 Secondo alcuni fu edificato dai Conti Coronini, ai quali oggi è intitolato a Gorizia il palazzo Coronini Cronberg, secondo altri sarebbe stato edificato da famiglia Thurn und Taxis ( italianizzato in Torre e Tasso), proprietari del castello di Duino, in provincia di Trieste, e poi dopo acquistato dai Coronini.
Essi ignoravano che su quel terreno c’erano tracce di un antico castelliere, poiché non esisteva l’archeologia né si conosceva l’esistenza di antiche civiltà.

Castello di Rubbia
L ’esterno dell’edificio di Rubbia  appariva- e lo è ancora oggi - simile ai castelli di Kromberk e Susans, oggi a Nova Gorica, di cui erano padroni gli stessi Coronini,  con le quattro torri laterali; all’ingresso un grande salone, con vari locali e cucine ai lati e in fondo scale che portavano ai piani superiori. Tra le scale, sui pianerottoli, fu installato sui pavimenti un mosaico che riproduceva il simbolo del cosiddetto fiore delle Alpi.  Questo simbolo, detto anche rosa celtica o carolingia, stella delle alpi, è una figura geometrica che disegna una specie di fiore a sei petali, al quale è stato attribuito nel tempo e nei vari luoghi, un significato generalmente religioso.
Era una figura decorativa largamente usata dall’antichità in molte parti del mondo, dall’Egitto dei faraoni alla Cina, dall’India al Messico al Giappone e altri paesi. In Italia apparve verso l’VIII sec. a. c. e si diffuse come motivo decorativo architettonico, in tutto l’arco alpino nell’arte Celtica, e nella iconografia longobarda. Nel medioevo ebbe grande diffusione anche in costruzioni e decorazioni religiose e valicò gli Appennini arrivando perfino nel sud e nelle isole: lo si trova come motivo decorativo degli architravi di antichi edifici del centro storico di Forìo d’Ischia.
Mosaico aquileia
Da motivo decorativo e simbolo religioso, negli ultimi anni è diventato simbolo di un partito politico. Durante i recenti lavori di ristrutturazione (ancora in corso), è stato ritrovato il mosaico contenente la decorazione del fiore alpino.
Tornando ai padroni del castello, i conti Coronini,  provenivano da  una famiglia “von Cronberg” originaria di Magonza, e fecero la loro comparsa a Gorizia intorno al 1500. Essi si integrarono nella zona e si legarono ai Conti di Gorizia e soprattutto alla corte degli Asburgo.
Il territorio era ancora dominio della casata dei conti di Gorizia, che però doveva difendersi dalle mire espansionistiche sia degli Asburgo, che avevano già acquisito Trieste nel 1382, sia, dall’altra parte, della repubblica di Venezia.
Tutta l’area del Vipacco  era terreno di contesa e di guerricciole continue, alternati a brevi periodi di tregua tra  Impero e Venezia, senza dimenticare le solite ingerenze papali e quelle del Patriarcato di Aquileia. Per completare i disagi, erano iniziate periodiche apparizioni dei Turchi che entravano nei territori per la solita via del Vipacco e, in più di una occasione, arrivarono fino a Savogna.
Dal 1420 la parte occidentale del Friuli venne annessa alla repubblica di S. Marco, compresa Aquileia, mentre la parte orientale fu divisa tra la Contea di Gorizia e i suoi territori da Cormons a Gradisca e tutta la valle dell’Isonzo,  e parte all’Austria che dominava già su Trieste e tutti i territori circostanti e contendeva anche le terre di Gorizia.  Nel 1394  peraltro era stato stipulato un accordo, poi rinnovato, tra il conte di Gorizia Enrico IV e  gli Asburgo in base al quale, nel caso di morte di un conte senza eredi, tutto il territorio sarebbe passato all’Austria.
Il Sacro Romano impero era ormai appannaggio degli Asburgo,  prima con Federico III e quindi nel 1493 con Massimiliano I°, mentre alla morte di questi nel 1519, l’impero e tutti i possedimenti  della casata passarono a Carlo V°, a capo di quell’impero “dove non tramonta mai il sole”, dall’Austria alla Spagna, dall’Italia ai paesi bassi, dall’ Istria alle colonie americane .
castello di Gorizia
I Conti di Gorizia avevano fatto il possibile per mantenere una certa autonomia e indipendenza, nel corso del tempo avevano dovuto subire il vassallaggio della vicina Austria e degli Asburgo barcamenandosi poi tra Aquileia, protetta dall’impero, e le mire espansionistiche di Venezia. Avevano fatto né più né meno di quello che potevano fare i piccoli stati, se volevano mantenere un poco di autonomia, appoggiandosi al potente vicino o a quello di turno.
Alla fine del secolo. XV°  le potenze europee erano la Francia, la Spagna e l’Impero. La vita politica, economica e anche religiosa italiana era perciò condizionata dalle scelte dei Grandi: l’unico stato italiano che poteva reggere  il confronto era Venezia. Il clima europeo non era affatto tranquillo, iniziavano le proteste luterane e calviniste, in Europa si combattevano guerre tanto grandi e tanto inutili, nelle quali era regolarmente coinvolta anche Venezia, per la parte che riguardava i possedimenti lombardi e friulani.
Le vicende del Friuli vanno viste in questo scenario e diventano veramente marginali rispetto alle grandi questioni europee.
planimetria castello di Rubbia tratta dal testo citato
i castelli del carso goriziano
Nel 1500, all’alba del nuovo secolo, la Contea di Gorizia cessò di esistere: l’ultimo rappresentante della dinastia, Leonardo,  morì senza figli. In base al trattato stipulato con gli Asburgo, tutte le terre, i castelli, i paesi e le città della contea, Cormons, Codroipo, Savogna e Gradisca  passarono sotto l’Austria.
 Con la fine della contea di Gorizia, finì l’ultima parvenza di uno stato autonomo nella regione: alla dieta di Worms, qualche anno dopo,  la Repubblica veneziana ottenne la parte centrale e occidentale del Friuli e la zona di Monfalcone.  L’ Austria invece prese l’intera contea di Gorizia, Gradisca, l’alta valle dell’Isonzo, la zona del Carso, Aquileia e Marano lagunare, tenendole ininterrottamente fino al 1918.

 

 








 




 

venerdì 12 aprile 2013

Il Gran Caffé





Re Gambrinus
Gambrinus è il nome di un leggendario re delle Fiandre (che è una regione dell’attuale Belgio) , considerato il patrono e/o l’inventore della birra. Sull'etimologia del nome ci sono varie teorie: secondo alcuni potrebbe derivare da un termine tardo-latino cambarus ( cellerario, addetto alle cantine) o da ganeae birrinus (colui che beve in una taverna); secondo altri si tratterebbe di una storpiatura del nome Jan Primus, riferito al duca Giovanni I° ( 1253/1294) di Brabante( territorio diviso tra Olanda e Belgio). Altre ipotesi farebbero, inoltre, derivare Gambrinus da un errore di trascrizione del nome "Gambrivius" o da un termine celtico camba, che indica la pentola dove viene preparata la birra.
Gambrinus, Trento
Il legame con la birra ha fatto si che il nome e la figura di Gambrinus compaiono in molte marche di birra europee e nordamericane: la Gambrinus Liga è la serie A del campionato di calcio ceco, sponsorizzato da una nota birra di quello Stato.
Lo stesso legame ha fatto sì, inoltre, che “ Gambrinus” sia il nome di molti locali, bar, birrerie, pizzerie e anche hotels: per restare in Italia posso citare l’Officina Gambrinus a Trento, un bar-trattoria, una birreria gambrinus a Udine, un hotel a Roma nella zona di via Veneto, e un altro a Cattolica mare, un bar ad Arezzo e un Music cafè a Montecatini Terme, a Napoli il caffè Gambrinus.
A Trieste, invece, è un circolo, una associazione, che si definisce culturale e che si chiama “amici del caffè gambrinus”, riferito allo storico locale di Napoli.
Personalmente non ne sono socio né frequento le loro iniziative, che spesso trovo alquanto singolari e discutibili, ma  chi vuole avere notizie più precise può andare a visitarne il sito.
Poichè conosco bene il caffè di cui i soci dicono di essere “amici” e che forse non tutti loro conoscono, proverò a raccontarlo.
Parto da una considerazione generale: Il “Gambrinus” non è l’unico Caffè di Napoli. Come  in quasi tutte le città, a Venezia ad es. con il Florian, a Padova con il Pedrocchi., come a Trieste con il S. Marco o il Tommaseo,  ma anche a Vienna o a Parigi, anche Napoli ha i suoi Caffè storici, luoghi di ritrovo di scrittori, poeti, artisti, giornalisti, politici, attori, e anche affaristi e persone comuni dove si parla, si ascolta, ci si intrattiene.
   Io posso ricordane solo pochi, quelli che ancora c’erano nel secondo dopoguerra, e negli anni        sessanta del XX secolo,  e non erano sicuramente gli stessi di una volta:  il caffè di “Van Bol e Feste”,      che si  trovava in piazza Borsa, vicino all’Università,  oppure il “Caflisch” , dal nome del titolare Luigi Caflisch, svizzero, in via Toledo, dalle parti della galleria, da quanto ne so era il più antico di tutti.
Gambrinu,interni
Altri ce ne erano a fine ‘800 e inizio ‘900, come il caffè Diodato, in piazza Dante, citato perfino in una poesia (Lassammo fa’ a’Dio) di Salvatore di Giacomo, poeta e scrittore, il caffè Calzona in galleria, il caffè d’Europa e tanti altri ancora, citati ne “ i caffè napoletani di E.Scalera”.
Nel 1860, nell’anno fatidico dell’unità d’ Italia, fu fondato, dall'imprenditore Vincenzo Apuzzo, al pianterreno del palazzo della Prefettura, all’angolo con via Chiaia, il “ Gran Caffè “.
L’  ingresso principale è stato ed è su quella  piazza che i veri napoletani chiamano ancora S. Ferdinando, invece di Trieste e Trento. A sinistra dell’ ingresso principale finisce via Toledo, di fronte da un lato un ingresso laterale della Galleria Umberto e dall’altro il teatro S. Carlo, mentre al centro la via che porta a castelnuovo e al porto. Sulla destra la facciata principale del palazzo reale con le statue di alcuni  re, e la grande piazza del plebiscito.
Il caffè riscosse immediatamente un enorme successo da parte della popolazione di ogni ceto, richiamata dall'opera dei migliori pasticceri, gelatai, e baristi da tutta Europa, di cui si avvalse il suo fondatore; ciò, nello stesso tempo, gli procurò subito la benevolenza della famiglia reale ed il riconoscimento per decreto di "Fornitore della Real Casa".
Dopo una quasi trentennale gestione Apuzzo, il locale passò a Mario Vacca, che lo trasformò completamente  e ne cambiò anche il nome: nacque il “ Gambrinus”.


Antonio Curri, galleria Umberto
Secondo quando racconta Vittorio Gleijeses ( guida di Napoli), all’inizio  si beveva solo birra e cioccolata: “ in seguito fu aggiunta anche la sala ristorante, dove si potevano consumare lauti pasti per un prezzo fisso di lire 4,50”.
Siamo negli anni 1889-1890, per affrescare il locale furono chiamati i migliori artisti napoletani dell’epoca: Antonio Curri( 1848/1916) architetto, pittore, decoratore, i pittori Luca Postiglione( 1876/1936), Pietro scoppetta(1863/1920), Vincenzo Volpe( 1855/1929), Edoardo Matania(1847/1929), Giuseppe Chiarolanza(1868/1920), Vincenzo Migliaro(1858/1938) pittore e incisore, Vincenzo Caprile(1856/1936) e altri. Il locale diventò così una galleria d’arte.
 Erano trascorsi appena trentanni dall’unità, c’era ancora chi rimpiangeva la Napoli capitale di un regnoche era stato grande( G.Oliva un regno che è stato grande, ed. Mondadori),  adesso il re era Umberto di Savoia e la capitale era a Roma, iniziavano proteste e le prime manifestazioni sindacali contro le quali non si esitava a chiamare l’esercito: a Milano, nel 1898, sarebbero state represse a cannonate. Iniziavano anche inutili e dispendiose imprese coloniali per le manie di grandezza di un piccolo Stato ancora in formazione. D’altro canto, era l’epoca della “ belle epoque” e. a Napoli, del salone Margherita.
Margherita era il nome della regina; poco distante dal “ Gambrinus” c’era, e c’è ancora, la pizzeria “Brandi”, dove secondo la leggenda, dovendo preparare una pizza speciale proprio per la regina, si pensò a qualcosa di patriottico: mozzarella di bufala bianca, pomodoro rosso, e basilico verde,  come i colori della bandiera, e le si dette un nome che divenne famoso, la pizza Margherita.
Palazzo reale
Da quegli anni in poi passarono nelle sale del gran caffè Gambrinus  personaggi illustri d'ogni tempo e paese, diventati poi clienti affezionati: Gabriele D'Annunzio (il quale, secondo alcune fonti, avrebbe scritto ai tavolini del caffè la poesia 'A Vucchella, musicata poi da Francesco paolo Tosti (1846/1916), per una scommessa con l’ amico poeta napoletano Ferdinando Russo ( 1866/ 1927),  poi Filippo Tommaso Mmarinetti(1876/1944) poeta scrittore , fondatore del movimento futurista,   Benedetto Croce, la giornalista e scrittrice Matilde Serao ( 1857/ 1927), e il marito Edoardo Scarfoglio, fondatore de “Il Mattino”,  il commediografo Eduardo Scarpetta, Totò e i fratelli de Filippo, e fra gli stranieri,  Ernest Hemingway, Oscar Wilde, Jean Paul Sartre.
Nel vasto quadro dei Caffè napoletani, il Gambrinus fu presto considerato al vertice: in tutti i sensi, politico, mondano, artistico, letterario, largamente rappresentativo, anche per la posizione centrale e dominante che occupava, al centro cittadino, anzi al punto di contatto tra il vecchi agglomerato cittadino, il Porto e il mercato, e il nuovo, cioè Chiaia e Mergellina.

Il Gambrinus definito come il balcone della città( A. Consiglio, 1967 prefazione ai caffè napoletani di E. Scalera, ed.Berisio), il luogo di incontro e di appuntamenti di tutta la città: “ ci si vedeva, ci si incontrava al Gambrinus”.
Dalle sale o dall’esterno del Gambrinus si vedeva, si assisteva – e si assiste ancora – a tutto quello che succede in città, davanti al Palazzo reale, davanti alla prefettura, davanti al S. Carlo, siano turisti  siano manifestazioni politiche o sindacali o semplicemente persone normali che passeggiano, famiglie che girano per via Chiaia  o prolungano la passeggiata attraverso piazza del plebiscito .
Scrittori, giornalisti, politici, viveurs, artisti, avvocati, magistrati e persone comuni, “ tutti i gioni e  per molti anni si sono dati convegno in quelle splendide sale, ed ogni gruppo aveva il suo tavolo”, così racconta Erminio Scalera nel libro citato (I caffè napoletani 1967), dove elenca almeno un centinaio di caffè e racconta anche storie sui frequentatori abituali.  
Gambrinus,interni
Percorsi i pochi metri che li separavano dal Gambrinus, “entrarono, strofinandosi le mani, e sedettero al solito tavolino di Ricciardi, quello vicino alla vetrata che dava su via Chiaia”: la frase è tratta da un racconto ( Il senso del dolore, l’inverno del commissario Ricciardi, ed Einaudi ), di Maurizio de Giovanni, ambientato nei primi anni 30, che cosi descrive il caffè: ”le cose qui, al caffè gambrinus non sono cambiate. Forse, addirittura, le condizioni degli stucchi, delle decorazioni, delle tele sono migliorate nel mio tempo: il restauro accurato, discreto e profondo, ha riportato a galla il passato meglio di quello che ritrovo in questi primi giorni di primavera del 1931. Davanti ai miei occhi, i segni del fumo di mille sigari, delle candele, della cucina; e gli schienali delle sedie addossati al muro quando si privilegia la sala da ballo al ristorante o al thè……Per il resto, le risate, gli sguardi ammirati dei turisti, lo svolazzare dei camerieri in marsina con enormi vassoi in bilico sono più o meno gli stessi, ora come allora”.
Nel 1938, il locale fu chiuso, con una risibile scusa ( si racconta che la moglie del sig. prefetto non riusciva a dormire per le musiche e il frastuono proveniente dal caffè, che come detto era situato proprio al piano terra della prefettura dove abitava)  dal prefetto Marziali, perché era considerato luogo di ritrovo di antifascisti o comunque di un luogo dove si mormorava contro il regime e ci si lasciava andare a storielle e racconti satirici.
Gambrinus Napoli, esterno
Gli ambienti che fino a quel momento erano stati del locale furono destinati ad ospitare una banca, l’agenzia del banco di Napoli, almeno fino a quando un nuovo impresario, Michele Sergio, non riuscì a riaprire l'esercizio, rioccupando parte delle sale, quelle che si affacciavano su piazza Trieste e Trento; successivamente  quelle sale se ne aggiunsero altre, recuperate dalla banca, dopo più di quaranta anni, alla chiusura di una lunghissima controversia col Banco di Napoli.
Solo nel 2000, infatti, le sale che si affacciano sulla piazza del Plebiscito, sono state riaccorpate al Gran caffè, restituendo al locale l’originaria architettura.
P.za S.Fferdinando e S.Carlo
Sostanzialmente riportato al suo antico splendore, oggi è uno dei luoghi più frequentati di Napoli, da tutti gli abitanti della zona di via Chiaia e dai turisti.  Sono passati da queste sale presidenti della repubblica, capi di stato e ministri stranieri e italiani in visita alla città. Gli ambienti interni  sono di inestimabile interesse artistico, si conservano dipinti, statue e stucchi, le pareti sono rappresentative della pittura napoletana di fine ottocento e compongono una vera e propria galleria d’arte.
Nel 2010, in occasione dei 150 anni dalla fondazione, ci sono state grandi iniziative artistiche per tutto l’anno, dal café chantant al diner d’epoque ( una cena con menù del 1880, da gare di pittura al concerto di Natale.
 Ogni anno, comunque, il caffè ospita nelle sue sale manifestazioni rievocative della bella "époque" europea e rappresentazioni di spettacoli musicali e teatrali di operette e di canzoni napoletane.