sabato 7 giugno 2014

Maria Sofia Wittelsbach, una vita difficile



                                                   Terza parte

 
                                              

                                                                                         L’ eroina di Gaeta

Gaeta, batteria S.Maria
E’ a Gaeta che Sofia avrebbe mostrato, al mondo intero, di che stoffa era fatta. E sarebbe nata la sua leggenda   quando  i bombardamenti su Gaeta si fecero più insistenti e cruenti, arrivando a colpire non solo obiettivi militari, ma anche obiettivi civili, come ospedali, chiese e case, allo scopo di abbattere il morale degli assediati e facilitare la caduta di Gaeta. La regina  iniziò a vedersi continuamente sui bastioni della città, accorrendo in aiuto dei soldati combattenti, prodigandosi a soccorrere i feriti e a dare conforto ai soldati che resistevano nonostante i bombardamenti,  divenendo col suo coraggio il simbolo dell'assedio, meritandosi il soprannome di "eroina di Gaeta".  Dice di lei Amedeo Tosti, uno dei suoi biografi: "Fin dal giorno del suo arrivo a Gaeta, la Regina Maria Sofia aveva preso ad esplicare una grande, inconsueta attività: visita ai reparti delle caserme, sopraluoghi sui lavori di rafforzamento, predisposizioni per le cure ai feriti ed agli ammalati, contatti con la popolazione, tra la quale la giovane Sovrana non tardò a diventare popolarissima.” .
 Nei momenti più gravi Maria Sofia non si perdeva d'animo, affrontava ogni rischio con sprezzo del pericolo,quasi a sfidare il destino. Quando  l’assediante Cialdini , pensando di fare una gentilezza, mandò a dire di segnalare con una bandiera nera più grande delle altre – erano tre sistemate sugli ospedali per farli risparmiare dalle artiglierie - , per lo stesso motivo, il luogo dove la regina abitava, Sofia gli fece rispondere: “ sebbene la maestà della regina sia stata sensibilissima alla cavalleresca cortesia dell’ E.V., pure vorrà Ella permettere che invece di porre la quarta bandiera nera sul palazzo della M.S., si possa innalzarla sul tempio di S. Francesco, edificio monumentale……”( Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone, Ed. Mondadori, 1982).
Per questo i soldati l'adoravano ed anche in punto di morte invocavano il suo nome.
  Quando a Gaeta la situazione diventerà sempre più tragica a causa dell'epidemia del tifo, del terribile freddo di quell'anno, della scarsità di cibo, la Regina risponderà sempre no all'invito del marito di lasciare la roccaforte. Cercò in tutti i modi di incoraggiare i soldati borbonici distribuendo loro medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, prese ad indossare un costume calabrese di taglio maschile affinché pure la popolazione civile la sentisse più vicina, come una di loro, partecipò personalmente ai combattimenti incitando alla lotta i soldati e recandosi in visita dei feriti negli ospedali. La vita in quell’ambito ristretto produsse anche una intimità nella coppia, che meravigliò lo stesso Francesco. Quando, poi, a Gaeta la situazione peggiorò sempre più a causa della scarsità del cibo, del tifo e del freddo Francesco II la invitò ancora a lasciare la roccaforte ma la regina fu irremovibile nella sua decisione di restare accanto al popolo.  Così, infatti, riferiva Francesco II in una lunga lettera a Napoleone:  dopo aver detto che “ è raro che un re ritorni sul suo trono se un raggio di gloria non illumina la sua caduta..”, egli aggiungeva a proposito della moglie:”… ho fatto tutto il possibile per convincere Sua Maestà la regina a separarsi da me! Sono stato vinto dalle sue tenere preghiere, dalle generose sue decisioni. Ella vuole dividere la mia sorte  sino alla fine, dedicandosi a organizzare negli ospedali i soccorsi ai malati e ai feriti. Da questa sera, Gaeta avrà una suora di carità in più”.  Grande fu l'ammirazione che ebbe verso Sofia il giornalista francese Carlo Garnier, testimone diretto, presente sul posto, l’esuberanza e il coraggio  la portavano dove il pericolo era maggiore, visitava le postazioni di artiglieria più esposte e avanzate, portando un sorriso e un incoraggiamento ai soldati.

 Ma anche Francesco dimostrò grande valore; così  scriveva  infatti un giornale, al tempo dell'ammirazione che cresceva all'estero verso il Re: "L’ammirazione, e son per dire l’entusiasmo, che desta in Francia il nobile contegno del Re di Napoli, vanno crescendo ogni giorno in proporzione dell’eroica resistenza del giovane monarca, assediato dalla rivoluzione sullo scoglio di Gaeta”.

                                                                                     L’assedio continua

Il generale Cialdini (a fianco), comandante delle truppe assedianti non rispettava alcuna regola di guerra  neanche verso i civili, oggi sarebbe considerato un criminale di guerra, E tale ingiustificato accanimento contro le difese della piazzaforte provocava ulteriori distruzioni di una città allo stremo e inutili lutti tra militari e civili assediati.
Ai primi di dicembre all'interno della piazzaforte si diffuse un'epidemia di tifo che aggiunse vittime  militari e civili,  a quelle dei bombardamenti piemontesi. Il tifo , sviluppatosi in modo notevole tra i difensori alla fine di dicembre, aumentò sempre più, fino a raggiungere gli  oltre novanta casi e tredici decessi al giorno. Si diffuse ovunque, nella stessa casamatta abitata dalla famiglia reale, dove morirono l’aiutante di campo del re e alcuni ufficiali.  Come se non bastasse c’era il problema degli animali, soprattutto cavalli, e muli, per i quali non c’era niente da mangiare, tanto che erano stati offerti agli assedianti, che avevano rifiutato di soccorrerli.” …si incontravano muli e cavalli ridotti a scheletri, ( G. Buttà cappellano militare a Gaeta),  prossimi a morir di fame. Quelle povere bestie, non trovando da mangiare sulla montagna di Gaeta, perché solcata e ricoperta di schegge, se ne erano scese in città, ed andavano pietose da porta a porta come se domandassero l’elemosina. I soldati qualche volta davano loro un pezzetto di pane….”.   Dal mare, Gaeta fu protetta dalla flotta francese comandata dall’ammiraglio  Barbier de Tinan che, però, aveva anche consegnato almeno due  messaggi da parte dell'imperatore francese  Napoleone  al re Francesco II per indurlo a trattare la resa, altrimenti avrebbe tolto la sua protezione ordinando alle navi da guerra francesi di abbandonare la rada di Gaeta, ma le proposte vennero respinte.
 Oltre che a Gaeta le truppe borboniche resistevano nelle Fortezze di Messina e di Civitella del Tronto, anche senza paga e senza cibo. Non c’erano più soldi per pagare soldati e ufficiali, che perciò si battevano solo per fedeltà e onore militare,e non si potevano più pagare neanche fornitori: tutto il denaro era rimasto a Napoli, nel Banco, ed era stato incamerato e rubato dai vincitori.
 Dall’altra parte non c’era più Garibaldi, sicuramente l’unico comandante competente in tutta la guerra, e lo si era già visto nel ’48 e nel ’59, e lo si vedrà anche nelle successive guerre, ad esempio quella del 1866, dove sia Cialdini sia l’ ammiraglio Persano faranno pessime figure, contribuendo alla sconfitta del neonato regno d’Italia.
Le batterie di Gaeta spararono, finché ci furono proiettili, sulle batterie piemontesi, incoraggiati dalle bande musicali militari borboniche che suonavano l'inno nazionale, ed avevano un tiro molto preciso, tanto che i piemontesi furono costretti ad arretrare le proprie batterie per evitare che venissero distrutte. In una occasione fu centrata la loro polveriera sul colle dei Cappuccini.
Andata via la flotta francese e le altre navi estere, la flotta sarda era intervenuta bombardando la piazzaforte dal mare, ma senza avvicinarsi troppo per paura di essere colpita. I borbonici, per indurre in errore la flotta nemica e farla avvicinare a distanza utile di fuoco schernivano con sfottò i marinai piemontesi, e, così avvicinatesi alcune navi sotto i bastioni di Gaeta,  vennero centrate e danneggiate gravemente dagli artiglieri di Gaeta.
Mentre la flotta assediante riceveva rinforzi, senza comunque combinare niente di buono, il Ministro della marina francese informava il Re  Francesco che nel porto di Napoli era all'ancora la nave "Mouette", messa a disposizione della famiglia reale per qualsiasi evenienza.  I bombardamenti sugli assediati, militari e civili, vennero intensificati, saltavano polveriere e morivano a centinaia, non c’era più cibo né possibilità di curare i feriti, le condizioni igieniche e sanitarie erano pessime, la truppa ridotta a pezzi.  Ai primi di febbraio tra gli schieramenti veniva concordata una tregua di 48 ore per consentire di seppellire i morti, soccorrere i feriti ed evacuare 200 soldati borbonici feriti e malati. Francesco si espose inutilmente alla morte sugli spalti, assistito da Sofia, sempre in prima linea.   Stava nascendo il “mito” di Gaeta, che si identificava nelle persone dei sovrani: “ da un momento all’altro, la regina scoprì di essere divenuta oggetto di leggenda e di una infiammata esaltazione popolare. Le gazzette di mezzo mondo le dedicavano articoli e  poesie: la sua immagine, con la spada al fianco, in mezzo ai cannoni, veniva riprodotta ovunque”( P.G.Jaeger, opera citata).

                                                                                            La resa

L'11 febbraio 1861, Francesco, dava mandato al Governatore della piazzaforte di negoziare la resa. Normalmente durante le operazioni della resa, veniva interrotta ogni operazione militare. Il “cortese” generale Enrico Cialdini, invece, fece continuare il bombardamento di Gaeta, affermando che, pur contento di iniziare le trattative di resa, non poteva accogliere una richiesta di tregua essendo “sua” abitudine continuare le ostilità finché non veniva firmata la capitolazione.
Il 13 febbraio 1861 nella villa reale dei Borbone a Mola (Formia), venne firmata la resa della piazzaforte e solo allora entrò in vigore il cessate il fuoco.
Il 14 febbraio alle ore 07,00 circa, il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia seguiti da principi e ministri, dopo aver ricevuto gli ultimi onori militari dalle truppe borboniche schierate sul lungomare di Gaeta ed un caloroso saluto dalla popolazione civile sopravvissuta ai bombardamenti, si imbarcarono sulla nave da guerra francese "Mouette" diretti a Terracina, nello Stato pontificio.  Le batterie di Gaeta esplodevano 20 colpi di cannone, come estremo saluto al Re che partiva per l’ esilio, e da terra si sentirono per l'ultima volta le grida dei soldati borbonici "viva 'o rre!".  
Subito dopo, la guarnigione, lacera e stanca, ma inquadrata dagli ufficiali sopravvissuti,  usciva dalla piazzaforte con l' onore delle armi.
                                        
                                                                                     Il viaggio

In mare, La Mouette – il gabbiano - , a fianco della bandiera francese, aveva innalzato anche il vessillo bianco con lo stemma borbonico al centro; la nave si avviava lentamente nella foschia, diretta a Terracina. Poche ore di viaggio, non c’era vento, l’aria era  fredda, umida e immobile, stagnante, il mare calmo. Il viaggio per Terracina sarebbe durato forse tre ore.  A bordo, non era una giornata come le altre: comandante, ufficiali e marinai avevano indossato le uniformi di gala, ma non c’era nessuna festa. La corvetta, fino ad allora sconosciuta, sarebbe passata alla storia per gli ospiti che conduceva: Francesco II di Borbone, re – ultimo - delle due Sicilie, e la moglie Maria Sofia Wittelsbach di Baviera, ultima regina del sud..
Lui 25 anni, lei 21, il re indossava una semplice uniforme blu,  priva di ogni decorazione, Maria Sofia portava un semplice abito scuro e un cappellino con una piuma verde.
Francesco e Sofia erano sul ponte, in silenzio guardavano verso quella terra, la propria terra,  che stavano abbandonando, e guardavano la fine di uno Stato, dello Stato delle due Sicilie, il regno secolare fondato nel 1130 da Ruggero II, il normanno, il più grande territorio della penisola italiana.
Francesco aveva detto a tutti che sarebbe tornato presto, ma non ci credeva, era solo apparenza.
Ripensava a quanto era successo, con  Garibaldi,che dalla Sicilia era arrivato fino a Napoli, al cugino Vittorio Emanuele,  che non gli aveva mai dichiarato guerra, e   ai tradimenti, corruzione, incapacità.
Il “caro” cugino Savoia si era già preso, senza alcuna dichiarazione di guerra, la Toscana, con  zio Leopoldo Lorena, che se ne era scappato senza sparare un colpo, poi Parma e Piacenza con Maria Luisa Borbone e il figlio piccolo di pochi anni, e Francesco di Modena, e l’Emilia-Romagna e le Marche.. Eh, ma qui aveva dovuto aspettare e combattere.  Di questo Francesco era soddisfatto.
Ma come era stato possibile che le sue truppe, quelle truppe, quei soldati che si erano battuti bene sul Volturno e poi a Gaeta, non erano riusciti a buttare a mare una banda di disperati in camicia rossa?
E tutti quegli altri che non aveva potuto accogliere nella fortezza,  e che aveva mandato oltre i confini dello stato pontificio, e che alimentavano la resistenza, e che ancora resistevano nelle fortezze di Messina e Civitella del Tronto.
i sentiva tranquillo, come liberato da un peso, gli dispiaceva più per Sofia che per lui stesso.
Sofia, la moglie, a Gaeta era diventata una eroina,  era stata vicina a lui  e a tutti i soldati, che l’avevano apprezzata. Fu interrotto proprio dalla moglie.
Francois, nous sommes arriveè - gli stava dicendo Sofia,-” comment te porte-tu, Francois? Ca va?”, si preoccupò la regina notando l’intenso pallore del marito. “ Maestà,  disse poi il marchese Pietro Ulloa -, simm’ arrivate”. “ sto’ bbuono, Marì, jamme”, rispose il Re.
rano a Terracina, territorio dello Stato pontificio e ospiti del Papa Pio IX.
Prima di scendere dalla nave, l’equipaggio e il comandante resero gli onori militari e il re, da persona civile quale era, ringraziò il comandante per la tranquilla navigazione e per le cortesie ricevute.
Quindi, dando il braccio alla regina, sbarcò.”..La giornata era fredda e perciò il re portava sulla divisa un gran mantello bianco – così si espresse il cronista francese Garnier, presente ai fatti  -…sembrava addormentato e camminava come un sonnambulo, in un sogno. Invece la regina era  ..irrequieta e curiosa”.
Ad aspettarli sulla banchina, oltre al delegato del Papa e agli zuavi francesi che rendevano gli onori, essi videro una folla di soldati napoletani, di quelli che non avevano trovato posto a Gaeta, sbandati, e  anche civili  che urlavano: “Evviva ‘o RRe nuosto!, Vulimmo vedè ‘o Rre !”. 
Un breve saluto e partirono per Roma, dove arrivarono dopo le otto di sera e furono ricevuti, al Quirinale, dal cardinale Antonelli, Segretario di Stato.
                                                  
                                                                                             L’esilio

Iniziava l’esilio; i sovrani e l’intera famiglia si installarono al Quirinale, assumendo – secondo P.G. Jaeger – “ l’atteggiamento esteriore di chi ritiene di non poter restare assente dalla patria più di qualche mese”.
Invece, non sarebbero più tornati. Giunto a Roma Francesco II°, dopo la prima ospitalità al  Quirinale, si trasferì poi a palazzo Farnese,  proprietà di famiglia, perché ereditato dalla sua ava Elisabetta Farnese. Lì, Re Francesco istituì un governo in esilio, che godette del riconoscimento diplomatico.
Da parte piemontese, fu  subito avviata una vera e propria “damnatio memoriae”, oggi diremmo una gigantesca macchina del fango, con l’obiettivo di cancellare i Borbone dalla memoria delle popolazioni meridionali. Il minimo era farli passare per oppressori stranieri,  al contrario dell’ italianissimo  “Savoia”, quello che parlava solo in dialetto torinese e in francese, e non gli riusciva di dire due parole in italiano!
Furono utilizzati tutti i mezzi disponibili, anche il ridicolo: “la messa in ridicolo di tutto quanto riguardava Francesco II  – dice P.G.Jaeger, non un meridionalista né un filo-borbonico, ma storico triestinoe il suo regno,  riuscì, sotto il profilo della propaganda, più efficace della denunzia che riguardava la ”brutalità” di suo padre Ferdinando. E lo dimostra la circostanza secondo la quale ancora oggi, la figura di Franceschiello,  è ricordata con ironia e disprezzo”.
Basti pensare alla caricatura di questo giovane re nello stesso diminutivo del nome, che non era assolutamente vero e comunque usato solo per affetto, dal momento che il vero soprannome in famiglia era “lasa”, poiché il suo piatto preferito erano le la lasagne.
Basti pensare al modo di dire ”l’esercito di Franceschiello”, per indicare con disprezzo soldati che non si battono, ma scappano e si sciolgono subito, quando basta vedere non solo come questi soldati si erano battuti sul Volturno, a Gaeta, a Messina e altre fortezze, ma anche i risultati conseguiti dall’esercito italiano dopo il 1861. Il “generalissimo” Cialdini, il duca di Gaeta, che oggi sarebbe ricercato e giudicato come criminale di guerra, si dette molto da fare nel napoletano, come luogotenente, dopo pochi mesi, contro gli insorti, fece quasi 9000 morti, 7000 prigionieri e 13000 deportati, come e peggio dei nazisti. Ma contro un esercito attrezzato come quello austriaco nel 1866, fu battuto a Custoza, facendo una pessima figura, e così anche quel super ammiraglio Persano, che perse tutta la flotta a Lissa fu condannato per incompetenza, degradato e mandato a casa senza neanche la pensione.
Basti pensare all’ uso improprio del termine  “borbonico”, per indicare retrogrado, lento, farraginoso a tutto ciò che non funziona nella pubblica amministrazione, quando in realtà leggi e regolamenti imposti a tutto il paese unito furono quelli piemontesi, cioè dei conquistatori.
E con Sofia fu ancora peggio: contro di lei fu avviata una incredibile campagna scandalistica, e fu oggetto di calunnie mirate a screditarla pubblicamente.
Nel febbraio 1862 apparvero alcune foto oscene che la ritraevano nuda, e che fecero il giro di tutte le corti d'Europa. Lo scandalo fu grande, ma  quasi subito  si rivelarono essere degli abili montaggi nei quali la testa della regina era stata montata sul corpo di una giovane prostituta. Le indagini svolte portarono la polizia pontificia all'arresto di Antonio Diotallevi e di sua moglie Costanza Vaccari, autori del misfatto.
Intanto, soprattutto Sofia, compiva alcuni tentativi di organizzare una resistenza armata nel Regno, molti legittimisti si recavano ad ossequiarla, avendone sentito parlare e aumentandone il mito, personaggi romantici che credevano di combattere per ideali e per amore di una dama, nello spirito dell’antica cavalleria, come cavalieri del medio evo. allora si formarono interi corpi di volontari legittimisti, provenienti da ogni parte d’Europa e persino Tra questi  spiccava Emile De Christen (1835/ 1870)), cadetto di una nobile famiglia dell'Alsazia francese. A venticinque anni raggiunse il grado di colonnello dell'Esercito Francese. Nel 1860, si congedò dall'Esercito Francese per partire alla volta di Roma ed  entrò a far parte dell’ Esercito delle Due Sicilie, quando ormai era già tardi. de Christen si recò a Napoli, volendo prendere parte alla sollevazione contro il Regno d'Italia, ma  fu imprigionato, condannato a 10 anni di galera. A causa di pressioni internazionali, il conte alsaziano fu liberato dopo 2 anni.  

Fine terza parte, continua……….