lunedì 1 settembre 2014

Maria Sofia di Wittelsbach, una vita difficile

                                                                              Ultima  parte e bibliografia




                                                                                  
 
 
       La guerra mondiale

 

    L’alleanza – la cosiddetta Triplice - che l'Italia aveva stretto con la Germania e anche l’Austria già mostrava segni di "cedimento". La gran parte del paese era avversa a quell'alleanza ritenuta "innaturale" dai nazionalisti.
NAPOLI
Il 28 giugno 1914, veniva assassinato a Serajevo, l’erede al trono  di Austria Francesco Ferdinando, nipote di Sofia, e iniziava la prima guerra mondiale.
      Allo scoppio della guerra, l'Italia dei Savoia si dichiarò "neutrale" non rispettando i patti sottoscritti con gli alleati della Triplice.
            Maria Sofia era ovviamente schierata per l'Austria Ungheria contro il regno d’Italia. Quando il "voltafaccia" italiano si manifestò chiaramente con l'intervento in guerra a fianco di Francia e Inghilterra, Sofia non potè che gioire, ritenendo che finalmente i Savoia avrebbero avuta la "lezione" che meritavano, e la loro sconfitta avrebbe determinato gli auspicati rivolgimenti nella penisola.
      Nel frattempo, a causa della sua attività in favore degli Imperi Centrali, l'ex Regina di Napoli era stata costretta a lasciare la Francia e si era rifugiata a Monaco, dove continuò, intensa, la sua battaglia.
Il 23 novembre 1916 moriva, a Vienna, il cognato di Sofia, l’imperatore Francesco Giuseppe, un protagonista del XIX secolo, che aveva visto crollare, dal 1848, il suo impero un pezzo alla volta.
Alcune storie, assolutamente infondate, raccontavano di una Sofia  coinvolta in atti di sabotaggio e di spionaggio contro l'Italia, nella speranza che una sconfitta italiana avrebbe disintegrato l’ unità.
Armando Diaz
 La disfatta italiana di Caporetto dell'autunno del 1917 sembrò l'inizio della catastrofe che poteva culminare nella fine della monarchia degli esecrati Savoia. Il suo sogno sembrava concretizzarsi, ma la gioia e il gusto inebriante della vendetta, a lungo desiderata, per poco tempo acquietarono il suo spirito. Infatti i fanti italiani, con la resistenza sulla linea del Piave fermarono gli Austriaci per poi passare all’offensiva, aiutati in questo anche da truppe alleate.
E, ironia della sorte, l'artefice della vittoria italiana fu un generale napoletano: Armando Diaz.       Gli ultimi mesi di guerra videro l'ex Regina di Napoli nei campi dei prigionieri italiani prodigarsi nell'assistenza. "Fra quei soldati laceri ed affamati, ai quali portava libri e cibo, cercava i suoi napoletani e questi guardavano con curiosità e rispetto una vecchia signora che parlava con uno stano accento tedesco-napoletano”. Erano trascorsi più di cinquanta anni da Gaeta, quei fanti non ne conoscevano neanche la storia, che peraltro era stata ben nascosta.
A novembre del 1920 moriva il fratello maggiore, Ludwig Guglielmo, nato nel 1831.Maria Sofia, l’ultima sovrana delle due Sicilie, morì a Monaco di Baviera, un anno dopo,  il 18 gennaio 1925, a 83 anni. Aveva trascorso 65 anni in esilio, era la penultima delle sorelle Wittelsbach ancora in vita – l’ultima fu Matilde che la seguirà nella tomba il 18 giugno 1925 - e superstite di un mondo che non c’era più.
Solo dopo 123 anni, nel 1984, dopo più di sessanta anni di trattative tra eredi e Stato italiano, i resti di Francesco II e quelli di Sofia e della piccola Cristina, furono finalmente restituiti a Napoli, nella loro città, per essere sepolti nella chiesa di S. Chiara, nel Pantheon dei Borbone, nell’ultima cappella a destra, accanto a quelli degli altri sovrani delle due Sicilie.
 
Ancora oggi a Gaeta, il 14 febbraio, data che riporta alla resa della fortezza e all’esilio del re Francesco di Borbone, si celebra la giornata del regno delle due Sicilie, a cura dell’ Associazione culturale neo-borbonica.                                      

 
                                                  

                                                                     Propaganda, storia e antistoria

 
Il regno di Napoli e di Sicilia, da quando si era formato nel 1130 con Ruggero II° di Altavilla, non aveva mai avuto vita facile: sempre voluto e desiderato da tutti,  tedeschi, spagnoli, francesi, inglesi e perfino il Papa che all’epoca riteneva di essere il signore feudale di quei territori. Tutte le dinastie regnanti sono durate poco, quasi che ci fosse una maledizione: i Normanni, fondatori del regno, esaurirono il loro dominio nel 1194, solo sessantaquattro anni. Arrivarono i tedeschi dell’imperatore Enrico VI, padre di Federico II  - lo “stupor mundi”, che in verità di tedesco non aveva quasi nulla, poiché preferì vivere a Palermo -,che resistettero fino al 1266, settantadue anni. Fu poi la volta dei Francesi con Carlo d’ Angiò, che furono cacciati, ma solo dalla Sicilia, dopo dodici anni: la rivolta fu chiamata i “Vespri siciliani”.
Gli Angiò ebbero miglior fortuna sul continente, a Napoli, nuova capitale, regnarono fino al 1440, circa due secoli e mezzo.
Iniziò allora il periodo spagnolo, prima con gli Aragona fino al 1503, circa sessant’anni, e poi, con Ferdinando il cattolico e i suoi successori, fino al 1713. Per circa vent’anni, poi, ci fu un intermezzo austriaco; nel 1734 il ritorno agli spagnoli con i Borbone fino al 1860, centoventotto anni. Per finire l’unità e i Savoia, per ottantasei anni.  A Napoli tutti i conquistatori – stranieri se si esclude il periodo ducale -  ne furono però conquistati, nel senso che dopo la prima generazione tutti diventarono napoletani.
Nei confronti dei Borbone, e soprattutto degli ultimi, fu fatto quello che non era mai stato fatto per le dinastie precedenti:  la propaganda per “inventare” un nemico, lo “straniero”, anche se è vero  quel che afferma Fabio Cusin,( Antistoria d’Italia, Ed. Mondadori), cioè che “… Granduca( di Toscana), Borbone e papalini fecero di tutto per rendersi  più malvisti”. Si doveva costruire lo Stato unitario, con le buone o con le cattive.  Come spiegare “la macchina del fango” costruita dai vincitori se, come si diceva, il popolo era  a favore dell’unità?   Era necessaria? Come spiegare che a fronte di un plebiscito bulgaro a favore dell’annessione al regno di Sardegna, si verificarono invece tante rivolte? Possibile che non c’era stato neanche un voto contrario? Tra l’altro, visto che la maggioranza della popolazione era costituita da analfabeti, come fecero a votare?

Francesco e Sofia in esilio
 Nei libri scolastici i Borbone venivano dipinti come i classici mangiatori di bambini e i fatti del Volturno e di Gaeta trattati con due parole, mentre si calcava la mano sui “briganti”. Ancora oggi storici di nome, come Lucio Villari ( Bella e perduta, ed. Laterza),  trattano in quattro righe l’assedio di Gaeta e lo declassano “ alla  storia personale dei sovrani napoletani e alla fedeltà e al sacrificio eroico di quanti restarono con loro”, come se non si trattasse, comunque, della storia d’Italia e  di migliaia di morti, italiani di entrambe le parti combattenti..
Per capire gli avvenimenti del 1860 soprattutto in Sicilia, che diedero il via alla invasione di Garibaldi nel pacifico e neutrale Regno delle Due Sicilie, è conveniente individuare i punti deboli, gli anelli della catena che hanno ceduto, il tradimento di persone che rappresentavano i gradi più alti dell’esercito e della marina e che a volte in modo plateale, tal altre in modo goffo o grottesco, disubbidirono agli ordini del Re, il quale era ben conscio di quello che stava accadendo, cercando in diversi modi di tamponare la situazione.
Il primo traditore fu il generale Ferdinando Lanza , solo omonimo dei duchi di Brolo e dei Baroni di Longi e Ficarra, dei Baroni dei Supplementi e di Malaspina, nato a Nocera, che rinchiuse i suoi 20.000 nel castello a Palermo, invece di annientare Garibaldi e i suoi, celebre l'episodio del soldato che in attesa dell'imbarco per Napoli sul molo del porto, rompe le righe e spezza la sua spada con disprezzo verso il generale Lanza che aveva impedito loro di combattere.
In termini di uomini e mezzi l’esercito borbonico avrebbe potuto fare una guerra all’Europa, sicuramente avrebbe potuto annientare il Regno di Sardegna. Allora con questo presupposto che si basa su dati di fatto, su documenti degli archivi militari, è mai possibile credere alla favola dei mille che conquistano la Sicilia con un barcone di pezzenti che sbarca a Marsala, quando l’Armata di mare poteva disporre in tutto 104 vascelli, per un totale di 10000 cavalli e 900 cannoni.
Tra l'altro fu proprio Garibaldi nelle sue “Memorie”, a ringraziare la Marina borbonica per la “tacita collaborazione”.
Lo sbarco in Calabria, scriverà, “non si sarebbe potuto fare con una Marina completamente ostile”. Da qui nacque anche il modo di dire

Mannaggia ‘a Marina”, coniato proprio da Francesco II, che soleva ripetere.
Alle persone di buon senso qualcosa non torna e non può sfuggire che nei libri di storia questi dati non sono mai citati, ma si punta piuttosto sulla favola dell’invincibilità di Garibaldi. Forse sarebbe ora di riscrivere quei testi con senso più critico, senza esagerazioni né da una parte, né dall’altra e insegnare ai nostri figli e alle persone che ancora non lo sanno la storia e la verità. Oggi c’è un grande ritorno  dei Borbone di Napoli,  soprattutto in occasione del cento cinquantenario dell’unità, ci sono studi e revisioni storiche, anche in riferimento alla situazione degli altri stati italiani preunitari.  Rivedere e riscrivere la storia del “Risorgimento” e della formazione dell’unità non significa né la riabilitazione dei Borbone né la condanna dei Savoia, né pensare a una “secessione” -  come oggi qualcuno pensa - ma solo ricercare e raccontare una verità nascosta per anni.  Le continue ricerche storiche portano alla scoperta di documenti e di fatti  nascosti e di macchie ripulite da una certa storiografia  anti meridionalista.
Si è venuti a sapere, ad esempio, che Ferdinando II contrastò la "tratta de' negri", giudicandola un “traffico abominevole”. Così, in effetti, fece nell'autunno del 1839, allorché promulgò la Legge per prevenire e reprimere i reati relativi al traffico conosciuto sotto il nome di Tratta de' negri. Composta di 15 articoli, la Legge prevedeva varie pene, che erano più gravi se qualcuno dei “negri” compresi nel traffico fosse stato fatto oggetto di maltrattamenti o di omicidio.Si è scoperto inoltre che, oggi che si parla tanto di rifiuti a Napoli e differenziata, erano stati per primi i Borbone a lanciare la diversificazione dei rifiuti. Sembra incredibile, ma così recita un decreto presente nella “Collezione delle Leggi e dei Decreti del Regno delle Due Sicilie” ed  emanato il 3 maggio 1832 (n.21) : "Gli abitanti devono tenere pulita la strada davanti alla casa usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondezze al lato delle rispettive abitazioni e di separarne tutt’i frantumi di cristallo o di vetro che si troveranno riponendoli in un cumulo a parte".
Il prefetto di Napoli dell’epoca, Gennaro Piscopo, ordinò ai napoletani: «Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di posti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo. Questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondizie al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte».
Cosa si sa, ancora, dei soldi rubati ai Borbone da parte dei Piemontesi?  Il regno savoiardo era in condizioni economiche disastrate, la riserva aurea di appena  20 milioni era pure sfumata e esaurita a  causa  delle spesse  dovute alla politica guerrafondaia dei Savoia. Tenere in armi un esercito numericamente esagerato per quello Stato, procedere a continui arruolamenti di volontari e doverli pagare, partecipare e promuovere guerre costava molto.  Al contrario il Regno delle Due Sicilie  possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento, una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni.  L’ economia piemontese era invece in ginocchio, I Savoia e Cavour si erano indebitati con i banchieri Rothschild per svariati milioni : quando arrivarono a Napoli e anche a Palermo, trovarono le casse piene e se ne appropriarono derubando i Borbone anche dei beni personali  che maldestramente erano stati lasciati nel banco di Napoli, pagarono i loro debiti e non li restituirono più nulla ai legittimi proprietari.. L’oro dei Borbone scomparve per sempre.
Molte erano già state le voci che si erano levate a favore di una riabilitazione dell’ultimo Borbone, almeno per liberarlo dalla disonesta ma propagandata fama di una sua “imbecillità”. Nel 1924, Sofia aveva 82 anni, viveva n povertà a Monaco ospite di un nipote, così ci narra il giornalista Giovanni Ansaldo che era andato a trovarla per una intervista: Sofia “ trasse fuori due poveri acquerelli, due vedutine del Vesuvio, dolcemente velate da un languore di esilio, che aveva tremato nella mano del dilettante. Il suo fido Barcellona( il cameriere segretario e badante fidato che l’assisteva da sempre), che le era accanto, le trovò belle. “Ti pare?” replicó la regina, socchiudendo gli occhi e guardando in prospettiva i due acquerelli. “Ti pare? Le dipinse il mio re. No, il mio re, tu lo vedi, non fu imbecille… Come dicono.” 
In realtà Francesco II era stato un uomo riservato, sensibile, molto devoto, un sovrano onesto e generoso: aveva vissuto una vita difficile, la morte della madre pochi giorni dopo il parto, nessuna preparazione a governare né ad affrontare emergenze e guerre, morte del padre alla vigilia di avvenimenti così importanti ini quell'unico anno di regno nel corso del quale lo aveva visto crollare insieme alla storica dinastia dei Borbone-Napoli. Principe reale per 23 anni, re per circa 16 mesi e, infine, 34 lunghi anni - oltre la metà della sua breve vita - da esiliato e soprattutto povero.
La sua "napoletanità", una filosofia di vita del tutto contrapposta alla cultura del potere e della guerra e piuttosto fatalista, aveva indotto i suoi stessi sudditi a riferirsi a lui confidenzialmente e affabilmente con il nomignolo di "Franceschiello": un nomignolo del quale si sono poi impossessate le cronache post-unitarie facendone discendere una figura superficiale, debole e patetica, senza che nessuno potesse intervenire a tutela della memoria di un re spodestato e diseredato dagli eventi.   
“Mitezza di carattere – Giuseppe Campolieti, in una completa biografia edita da Mondadori -, signorilità, bontà non significano ingenuità o dabbenaggine”.  Non dimentichiamo che anche di Carlo Alberto di Savoia si è detto che era tormentato da dubbi e incertezze, timorato di Dio, indeciso – il Re Tentenna -.
Il limite di Francesco II è soprattutto caratteriale, schiacciato dalla personalità del padre; egli, secondo Gianni Oliva ( Un regno che è stato grande, ed. Mondadori), “non è il personaggio intellettualmente limitato, sdegnoso del mondo della carne, descritto dalla storiografia risorgimentale: Ha ricevuto l’educazione che spetta a un principe ereditario, dimostrando di essere dotato di buone capacità cognitive; ha seguito un percorso di formazione militare per essere all’altezza delle tradizioni di famiglia e a conosciuto le province del regno seguendo spesso il padre nei viaggi istituzionali”. 
Arrigo Petacco, nella “ Regina del sud” scrive:” se come vuole la migliore retorica, almeno un raggio di gloria deve illuminare il tramonto di una dinastia, Francesco II e Maria Sofia se lo guadagnarono sugli spalti di Gaeta. Perché se è vero che un re e una regina devono mostrarsi tali nei momenti decisivi, gli ultimi sovrani di Napoli si rivelarono in quella occasione degni di ammirazione e di rispetto. Oggi, alla luce della Storia, il loro comportamento a Gaeta acquista addirittura il significato di un presagio. Nessun raggio di gloria, infatti, illuminerà il pronipote del “re invasore” quando, ottantasei anni dopo, sarà anche lui costretto a prendere la via dell’esilio”.
Si riferisce a Umberto II, cacciato dalla volontà popolare e al padre, a quel Vittorio Emanuele III che scappò di notte, abbandonando tutto e tutti al loro destino. E che dire, poi, degli attuali discendenti? Non mi sembra reggano il confronto con quelli di Borbone.
Di questo avrebbe gioito sicuramente Maria Sofia, che non si era mai arresa di fronte alla storia, e che dopo la morte del marito continuò, e nessuno potè fermarla, una lunga battaglia contro gli odiati Savoia.
Maria Sofia ha avuto una vita lunga ma disperata e sfortunata, regina a diciannove anni, esule a venti e per oltre sessantenni, unica superstite delle sorelle Wittelsbach, che non avevano avuto, anche loro, una vita facile.
Maria Sofia
Molti autori parlano e riportano una intervista rilasciata da Maria Sofia nel 1924 al giornalista italiano Giovanni Ansaldo, e poi pubblicata sul Corriere della sera. L’ ultima regina delle due Sicilie viveva a Monaco, da anziana signora - 82 anni - dalla vita travagliata e difficile, in povertà, in un vecchio palazzo. Il giovane giornalista si trovò davanti a una vecchia signora che, malgrado i tanti guai e vicissitudini, aveva conservato una sua regalità e il suo innato charme. Maria Sofia era ancora lucidissima e ricordava perfettamente il suo fin troppo breve ma felice periodo napoletano. “La regina”, che parlava italiano, nel corso dell’intervista non risparmiò giudizi taglienti verso gli odiati Savoia.” I Savoia non sono stati chic verso i Borbone, re legittimissimi”.  Ad un certo punto Maria Sofia diventa persino profetica quando esclama: “Il modo in cui loro hanno trattato noi è di brutto augurio. Dio non voglia che un giorno, anch’essi, non abbiano da difendere, dall’esilio, i loro patrimoni personali”. Profezia, veritiera solo in parte. I Savoia, infatti, nel momento della fuga disonorevole e senza combattere, furono molto più astuti e previdenti provvedendo in anticipo a spostare nei capienti forzieri svizzeri il loro inestimabile tesoro, che era almeno in parte, risultato di ruberie e furti perpetrati a Napoli e nel meridione tutto. Il giornalista restò rapito dalla determinazione e dall’energia della vecchia regina  tanto da non riuscire più ad articolare domande.
Io - raccontava Sofia - invece, sono stata povera e morirò in povertà, come il mio re. Quando partimmo da Napoli abbiamo lasciato quasi tutto, convinti che saremmo tornati, eravamo giovani e illusi, forse non dovevamo andarcene, ma combattere per le strade. Ho lasciato lì perfino il mio guardaroba e la biancheria, tutto si sono presi dopo. Il re lasciò tutto anche i depositi e beni privati al Banco di Napoli, 11 milioni di ducati, circa 50 milioni di franchi d’oro e la mia dote di nozze e i garibaldini si rubarono tutto”. ( secondo l’autore filo borbonico Gigi di Fiore in :” Contro storia dell’unità d’Italia” Ed .BUR Saggi). Ed è vero: il regno sardo , per la politica condotta e le troppe guerre, si era indebitato con tutte le banche europee e si risollevò sequestrando tutti i beni e i contanti che trovò a Napoli e negli altri territori annessi.
 L’ intervista  fu pubblicata nel 1924, ma fu omessa la parte in cui, da “ voi lo vedete sono povera” a “ i loro patrimoni personali “ - , commenti negativi e profezie malevole verso i Savoia, che all’epoca erano ancora regnanti in Italia. Quella parte fu pubblicata solo nel 1950, sul “Tempo”. Non riporto il testo dell’intervista; chi ha interesse può leggerla, nella versione integrale, su Internet.

Bibliografia

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